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Intervista a A. O.Ferraris

(URL=http://www.mediamente.rai.it/HOME/bibliote/intervis/f/ferraris.htm)

Rispetto alle generazioni precedenti, i bambini di oggi nascono con il televisore dentro casa, e quindi si abituano molto precocemente, prima ancora che ai programmi televisivi, proprio all’oggetto televisore, da cui sono molto attratti. Da alcuni bambini, la televisione viene percepita quasi come una persona. Quando poi non si ha la possibilità di fare altre esperienze, la tv può diventare un amico con cui trascorrere il pomeriggio (1).

Il bambino guarda la tv non solo per divertirsi, ma soprattutto per farsi un immagine del mondo degli adulti. E però, fino ai sei sette anni, non è ben attrezzato per comprendere appieno ciò che guarda (2).

La pubblicità – per il suo ottimismo, per la sua concisione e per la sua ripetitività – è il programma che più influisce sul comportamento dei bambini (3).

Guardare troppa tv può indurre ad una vera e propria “mutazione antropologica” nei bambini, abituandoli ad utilizzare prevalentemente il senso della vista a scapito degli altri e a rimanere in un atteggiamento sostanzialmente passivo rispetto ai messaggi emessi (4).

Per ovviare a tutto questo, i genitori invece di lasciare da soli i bambini davanti allo schermo, dovrebbero operare delle selezioni sulla programmazione, e aiutare i propri figli nella comprensione di ciò che vedono. La stessa scuola può far molto per insegnare a non subire passivamente il mezzo televisivo. Ma soprattutto bisognerebbe non sacrificare i giochi all’aperto, per l’indispensabile esperienza di autonomia e di libertà che essi forniscono ai bambini (5).

INTERVISTA:

Domanda 1

Professoressa Oliverio, nel suo libro “TV per un figlio”, lei inquadra il problema del rapporto fra televisione e infanzia, all’interno del contesto quotidiano: la televisione sembra acquisire il ruolo di amico, di compagno.

Risposta

C’è una grossa differenza tra le generazioni precedenti, che sono cresciute senza televisione, che l’hanno trovata solo dopo nella loro vita, rispetto ai bambini di oggi, che invece già nascono con il televisore dentro casa, e quindi si abituano molto precocemente, prima ancora che ai programmi televisivi, proprio all’oggetto televisore, da cui sono molto attratti. Anche i bambini di pochi mesi di vita sono attratti da queste immagini che si muovono sullo schermo, e possono quasi affezionarsi all’oggetto televisore, prima ancora di capire che cosa rappresentino le immagini. Da alcuni bambini viene percepita quasi come una persona, perché parla, perché si vedono delle persone all’interno. Quando poi non hanno la possibilità di fare altre esperienze, possono considerarla anche un amico che gli fa trascorrere il pomeriggio. Però, in genere, la considerano una soluzione minore, perché preferirebbero giocare all’aperto con gli altri bambini della loro età. A volte dicono: “Non ho niente da fare e quindi guardo la televisione”. I bambini mi danno delle risposte molto belle, molto significative, quando chiedo loro: “Che cos’è la televisione per te?”. Direi che la più divertente, forse proprio la più significativa, è stata quella di un bambino di sette anni, che mi ha detto: “E’ una cosa che non ti fa sudare e le mamme sono più contente quando non si suda”. Perché spesso viene usata come una baby-sitter, che tiene buono il bambino, lo tiene fermo, quando in realtà per tutta la prima e la seconda infanzia bisognerebbe muoversi, far chiasso, scatenarsi un po’, fare delle esperienze di libertà, quelle normali esperienze di libertà che fanno i bambini giocando tra di loro.

Domanda 2

Parliamo degli effetti della televisione sui bambini.

Risposta

Bisogna tenere presente che il modo con cui un bambino guarda la televisione è diverso dal modo con cui la guarda un adulto. Un adulto spesso si mette di fronte al televisore solo per divertirsi, per rilassarsi, mentre un bambino vuole anche farsi un’immagine del mondo. Ecco, i bambini guardano la televisione per farsi un’immagine del mondo degli adulti. Da sempre i bambini cercano di capire com’è il mondo degli adulti. Oggi c’è la televisione dentro casa, viene data molta importanza a questo mezzo di comunicazione, anche gli adulti la guardano e quindi il bambino la guarda per capire come deve comportarsi. Per lui quello che viene dalla televisione è positivo, anche perché è associato al clima positivo della casa, della famiglia, e spesso può prendere alla lettera quello che vede. L’età, in tal senso, è un fattore estremamente importante. Un bambino di quattro o cinque anni incomincia a capire qualcosa sulla differenza tra vero e falso, però continua a confondersi ancora fin verso i sei, sette anni, a seconda del tipo di programma. Ma la cosa più difficile da comprendere è, per esempio, la diversità tra vero e verosimile. Non tutto quello che è verosimile è vero. E poi i tempi di attenzione di un bambino piccolo sono brevi, quindi spesso non è in grado di seguire il filo conduttore, la trama di una vicenda, e quindi magari non collega il finale moralistico della storia con il resto: di una storia gli possono rimanere impresse soltanto le immagini più forti, quelle che l’hanno colpito, che hanno un valore emotivo particolare.

Domanda 3

Lei ha detto che i bambini guardano la televisione per farsi un’immagine del mondo. Talvolta da questo ne discende un comportamento. Ecco, quali sono i modelli comportamentali che i bambini assorbono più velocemente? E i genitori possono avere un ruolo nello stemperare o nell’indirizzare meglio questi modelli?

Risposta

I bambini guardano spesso anche i programmi rivolti agli adolescenti, cioè quei serial dove ci sono dei ragazzi un po’ più grandi di loro, proprio per ispirarsi a loro. Naturalmente guardano anche i programmi a loro rivolti. I “Power rangers”, ad esempio, hanno indotto tutto un diverso modo di fare la lotta, che già si vede nella Scuola Materna: bambini che appunto usano i calci, e così via. E poi molto apprendono dalla pubblicità. I bambini sono oggi bombardati dalla pubblicità, che si collega ai cartoni che vedono, agli spettacoli a loro dedicati. Ogni volta che esce un nuovo film – adesso c’è “Pocahontas” in circolazione – c’è un tale numero di oggetti, di gadget associati che vengono reclamizzati in televisione, che il bambino ne è come inseguito. Lo spot televisivo, del resto, è lo spettacolo preferito dai bambini fin verso i sei, sette anni, perché si adatta proprio alla loro mente. E’ breve, c’è un’avventura che interessa, spesso ci sono dei bambini – quelli indirizzati – e allora sono indotti ad identificarsi. Inoltre le situazioni sono sempre positive, e i bambini sono degli ottimisti. E poi ci sono degli slogan, che sono ripetuti nell’arco della giornata, e ai bambini piace la ripetizione, perché piace ritrovare le cose che già conoscono. Insomma, la pubblicità influisce molto su di loro, non soltanto per indurli all’acquisto di oggetti a loro diretti, ma anche per tutti i prodotti per la casa, e i pubblicitari lo sanno benissimo. Sanno che poi i bambini chiederanno ai genitori di comprare certi prodotti. E bisogna tener presente che questo non influisce soltanto sull’acquisto, ma anche sulla relazione tra genitori e figli, perché poi il genitore che non comprerebbe un certo prodotto, oppure l’ennesimo giocattolo perché il bambino ne ha già tanti, può anche entrare in crisi e sentirsi in colpa perché può pensare di farne un diverso rispetto agli altri bambini. E qui c’è tutta un’opera di educazione da fare. Certo, se la televisione aiutasse un po’ i genitori e gli insegnanti, se questi non dovessero sempre remare contro corrente, sarebbe più facile.

Domanda 4

Nel suo libro, lei parla di una “mutazione antropologica”. A che cosa fa riferimento?

Risposta

Al fatto che ci si abitua a un certo tipo di rappresentazione, che è quella delle immagini. Intanto viene molto valorizzata la vista, naturalmente. Il bambino si abitua fin da piccolo a fare attenzione agli stimoli visivi. Per intenderci, il non vedente, che è obbligato a fare affidamento su altri sensi, affina quegli altri sensi, non perché in partenza li avesse più sviluppati, ma proprio perché fa esercizio. Ecco, se il bambino guarda troppa televisione fin da piccolo, a scapito di altre esperienze, cioè dell’uso di altri sensi, c’è il rischio che poi la sua attenzione, anche il suo modo di memorizzare le informazioni, si basi troppo e soltanto sul dato visivo. Questo è un primo punto. Un secondo punto è dato dall’abitudine al linguaggio e ai tempi della televisione. Ora, i tempi sono diventati sempre più rapidi: per esempio, i vecchi cartoni animati di Walt Disney erano molto lenti, e quindi anche la mente dello spettatore poteva in qualche modo inserirsi, poi sono diventati velocissimi, non c’è più molto tempo per riflettere. Ci si abitua a captare una serie di messaggi prefabbricati, dove l’apporto dello spettatore è minimo. Il pericolo è che i bambini sviluppino un’attitudine passiva di fronte al video. Possono diventare degli ottimi spettatori, farsi anche delle opinioni, però non si abituano a prendere delle iniziative. Su tutto noi dobbiamo fare esercizio, quando siamo bambini. Anche se vogliamo diventare bravi socialmente, dobbiamo fare delle esperienze fin dall’infanzia, interagire con altre persone, vivere in una realtà più complessa di quella televisiva, che poi è ad una via. Io non dico che la televisione sia negativa. E’ un mezzo bellissimo, con enorme potenzialità. Il discorso è che, siccome si diffonderanno sempre di più gli audiovisivi nel nostro mondo, dobbiamo tutti quanti imparare ad usarlo a nostro vantaggio e a vantaggio dei bambini, naturalmente. Anzi, bisogna che i bambini siano alfabetizzati in fatto di televisione: nelle elementari, nelle medie devono capire questo linguaggio, che è un linguaggio ricchissimo. Però devono portare avanti anche altri tipi di linguaggio. Per esempio, non perdere l’abitudine alla lettura. Nella lettura i tempi sono decisi dal lettore, si può tornare indietro, c’è più spazio per la fantasia, perché l’immagine definisce tutto, mentre nel libro non c’è questa immagine così incombente, quindi c’è più spazio per riflettere. Nel libro l’informazione avviene secondo una sequenza logica, mentre in televisione ci sono accostamenti analogici. Insomma, sono diversi modi di inviare messaggi e di comunicare.

Domanda 5

Quali tecniche si potrebbero sviluppare per insegnare ai bambini, ai ragazzi, a controllare meglio lo strumento televisivo?

Risposta

Intanto bisognerebbe arrivare a scegliere i programmi in base alla loro qualità, e non mettersi con un’attitudine passiva di fronte al televisore e vedere tutto quello che c’è. Bisognerebbe scegliere, valutare. Coi bambini bisognerebbe stabilire un tetto di ore per giorno, e non superarlo, a seconda poi dell’età dei bambini. Forse non bisognerebbe lasciare un televisore nella stanza dei bambini. Ho visto che un 43% dei bambini del mio campione romano ha un televisore nella stanza, ha l’uso libero del telecomando, e quindi può vedere tutto, può fare una specie di indigestione, e così anche trovarsi di fronte a messaggi che non è in grado di decodificare. Dobbiamo metterci dal loro punto di vista, insomma. Per noi certe cose sono scontate, abbiamo una lunga esperienza alle spalle, per loro è la prima volta e quindi possono avere delle difficoltà a orientarsi. I genitori dovrebbero un po’ vedere che cosa guardano i bambini, qualche volta stare accanto a loro per spiegare. E poi a scuola si potrebbe fare moltissimo. Per esempio, per quanto riguarda la pubblicità, si potrebbe fare tutto un lavoro di smontaggio, cioè mettersi dal punto di vista del pubblicitario. Ecco, è importante cambiare prospettiva: da spettatore diventare attore, diventare regista, diventare pubblicitario, quindi simulare la costruzione di uno spot, per capire anche come è complesso tutto il lavoro che c’è dietro ad un programma. Oppure si potrebbe insegnare ad andare a vedere qual è la vera qualità del prodotto, a leggere sulle etichette quello che è scritto molto piccolo, a ragionare. Si dovrebbe anche insegnare a dilazionare la gratificazione, perché se no i bambini sviluppano un’attitudine del “voglio tutto, subito”, perché sono abituati a queste gratificazioni: i programmi televisivi rivolti ai bambini sono brevi – c’è un inizio, uno sviluppo, una fine – e ogni finale rappresenta una gratificazione dal punto di vista psicologico. I bambini sono abituati ad essere serviti, ad avere tutto senza sforzo, e allora poi possono pretendere, nella vita, le stesse cose. E poi si può anche arrivare a fare dei video. Ci sono delle scuole che hanno dei laboratori televisivi, e lì i bambini possono fare un’esperienza molto ricca e complessa, che è quella del lavorare in gruppo per fare una sceneggiatura, fare una ricerca, fare le riprese, il montaggio, e così via. Insomma, bisognerebbe insegnare a diventare padroni del mezzo, a non subirlo, a gestirlo, insomma, visto che questo mezzo si diffonderà sempre più. Però bisogna che ci sia anche spazio per altre attività. Non bisogna sacrificare i giochi all’aperto, perché a quell’età sono molto importanti per l’esperienza di autonomia e di libertà che i bambini devono fare.

Tra influenza, pubblicità e marketing… un dialogo con la dottoressa Oliverio Ferraris

Tratto da Comunitàzione.it

(URL=http://www.comunitazione.it/leggi.asp?id_art=1645&id_area=143)

Il Fattore Assillo (Nag Factor) approda anche in Italia.

Tecnica subdola per la manipolazione di ‘tavolette di cera su cui incidere’, o più semplicemente una tecnica di marketing che tenta di imporre il volere dei figli sui genitori?

Il Nag factor è una tecnica introdotta da psicologi dell’età evolutiva, e noi per fare un po’ di chiarezza,

conoscere meglio la tecnica, e conoscendola magari anche imparare a difendersene, abbiamo deciso di contattare la maggiore esperta dei processi evolutivi in Italia, la dottoressa Anna Oliverio Ferraris.

Mi scuso in anticipo se le mie domande saranno lunghe, ma più che un intervista abbiamo deciso di fare una chiacchierata sull’argomento.

Dottoressa Ferraris, bentornata. Sono contento di rivederla. Rompiamo il ghiaccio con una domanda diretta: psicologia e pubblicità è un connubio non nuovo. I padri del comportamentismo americano si erano già dedicati all’argomento. Se la memoria non mi inganna Watson e il suo allievo Walter Dill Scott furono, prima incaricati di eseguire studi sull’efficacia delle campagne di comunicazione, e successivamente Watson ricevette dalla J.W. Thompson l’incarico di creare campagne di comunicazione per dentifrici e borotalco; agli studi di Watson dobbiamo l’attenzione al brand, e il concetto stesso di lealtà nei confronti del brand, così come l’uso dei testimonial nelle campagne pubblicitarie.

Sembra dunque che il nostro pubblico sia influenzabile. Ma questo è vero sempre, o solo quando il pubblico non ha le armi (culturali o dovute all’esperienza) per difendersi?

In linea di massima tutti siamo influenzabili, quando ci abbandoniamo al ‘flusso’ (d’altro canto è difficile stare costantemente all’erta…). Ovviamente le persone dotate di senso critico, con esperienza e una vasta cultura, abituate e riflettere e ragionare, lo sono molto di meno e sono in grado di difendersi. Viviamo però, tutti quanti, sotto un bombardamento costante di stimoli, molti dei quali intendono indirizzarci verso acquisti, mode ed opinioni prefabbricate (anche politiche e religiose) nel modo più rapido possibile: l’obiettivo dei ‘manipolatori’ di professione non è convincere sulla base di validi motivi (per esempio la qualità intrinseca di un prodotto, la sua effettiva utilità ecc.), che richiederebbe troppo tempo specialmente nella cosiddetta società di massa; ma condizionarci facendo appello alle nostre emozioni, facendoci sentire inadeguati o esclusi, inculcandoci delle insicurezze o anche, più semplicemente, creando intorno a quel prodotto (a quell’opinione, comportamento, pseudo-evento, personaggio ecc.) un clima di simpatia, di allegria e/o di condivisione.

Ci può spiegare come funziona il nag factor a livello psicologico? Quali sono le leve, i meccanicmi che va a smuovere e mobilitare?

Per nag factor si intende il ‘tormento’ (richieste insistenti, capricci, paragoni con gli altri bambini…) che un bambino ben condizionato dalla pubblicità dà ai suoi genitori, nonni, zii ecc. affinchè acquistino per lui un determinato prodotto, gli consentano di vestire e comportarsi in un certo modo, di mangiare determinati alimenti, compresi i cosiddetti cibi spazzatura che rendono obesi e danneggiano l’organismo, ma su cui le grandi compagnie spendono per la pubblicità cifre da capogiro.

Una campagna pubblicitaria ben congeniata può mettere in crisi il rapporto genitore-bambino: il piccolo a cui si dice che una serie di prodotti sono ‘per lui’, considera ‘cattivo’ l’adulto che non soddisfa le sue ‘legittime’ richieste. Se il messaggio che proviene dai media contrasta apertamente con la volontà dei genitori, questi dovranno fare un lavoro supplementare per convincere i figli a seguire la loro linea educativa; in caso contario ad avere la meglio saranno i messaggi pubblicitari, nuovi educatori di molti bambini contemporanei.

Chi ha come target i bambini – dai 2 anni in su e a volte anche di età inferiore – si preoccupa di ‘fidelizzarli’ al prodotto, alla marca (brand) il più presto possibile e per ottenere questo mette a punto stretegie volte a manipolare le loro emozioni: per esempio, l’attaccamento che i bambini di età prescolare sviluppano nei confronti degli oggetti con cui vengono in contatto, le persone e i personaggi (compresi quelli che compaiono sugli schermi) che incontrano quotidianamente. L’obiettivo è infatti triplice: renderli insistenti nella richiesta di determinati prodotti indirizzati a loro (nag factor); ottenere che con le loro richieste influenzino gli acquisti degli adulti (non solo cibi e giocattoli ma anche prodotti per la casa, auto, telefonini ecc.); fidelizzarli, appunto, ad una marca, una confezione, uno slogan che acquisisce, per il piccolo consumatore, una risonanza emotiva che, nelle intenzioni dei pubblicitari, dovrebbe accompagnarlo anche negli anni successivi, così da renderlo dipendente da quel determinato prodotto per molti anni ancora… L’immagine del prodotto, di per sé, dovrebbe evocare senzazioni gradevoli, protezione, affetto, sicurezza oppure avventura, curiosità, autonomia.

Per ottenere questo triplice risultato, le grandi compagnie internazionali hanno ingaggiato psicologi che, attratti da lauti guadagni e a conoscenza dei bisogni fondamentali dei bambini e dei moti del loro inconscio, mettono le loro conoscenze a disposizione dei pubblicitari: questi ultimi, collaborando con gli psicologi (e anche con sociologi ed esperti di comunicazione), mettono poi a punto strategie che variano in rapporto all’età del ‘target’ e alle caratteristiche del prodotto.

Con i più piccini funzionano gli animali, i movimenti lenti (che annoiano gli adulti), i colori, i ritmi musicali, le rime semplici e orecchiabili (jingle), piccole vicende di vita quotidiana e naturalmente le confezioni (p. es. degli alimenti) rappresentano un aspetto primario: se l’obiettivo è condizionare (non convincere), la qualità del prodotto è irrilevante rispetto alla confezione.

Altre tecniche -variabili con l’età – sono le collezioni di giocattoli o figurine che vengono ‘regalati’ con il prodotto, i cibi modellati (forme di animali e personaggi dei fumetti) e colorati artificialmente, l’abbinamento con personaggi dei cartoni.

Con i più grandi funzionano le star del calcio, del cinema e della musica pop. A questo proposito è importante ricordare che il senso critico, anche quando è sviluppato, non sempre ha la meglio sulle emozioni e i desideri. Per esempio, un ragazzino di undici-quattordici anni può essere ormai del tutto consapevole della finalità persuasiva e manipolatoria della pubblicità che oggi va per la maggiore, ciononostante può cedere ugualmente al fascino del suo eroe del calcio e desiderare le scarpe che l’ ‘eroe’ reclamizza in tv…

Ci sono anche tecniche più subdole che mirano a ‘inoculare’, nella mente di bambini e ragazzi, insicurezza e insoddisfazione nel caso in cui non riescano a venire in possesso di un determinato prodotto; a volte la frustrazione può creare una vera e propria ferita narcisistica se altri bambini o ragazzi sono invece in possesso dello status simbol del momento, se sono più belli, più fortunati ecc. C’è per molti lo sconfortante confronto tra la propria vita, il proprio ambiente familiare e quello invece gioioso e brillante in cui si muovono i protagonisti degli spot, coetanei degli spettatori.

Infine, la pioggia di pubblicità cui sono sottoposti i bambini ha anche l’effetto di promuovere, inconsapevolmente, giorno dopo giorno, esposizione dopo esposizione, una mentalità materialistica: valori, felicità, rapporti personali sono tutti legati al possesso di qualcosa e se non si possiedono i prodotti di moda in quel momento ci si sente inquieti, infelici, incompleti…

A me i conti non tornano. Un imprenditore che si rivolge al mercato deve conoscere i desideri dei consumatori, quindi fornirgli i beni necessari. A volte i consumatori hanno ‘voglia di qualcosa di buono’ ma non sanno dargli un nome, così un imprenditore crea un ‘Roché’. Tutto questo mi sembra andare incontro alle esigenze dei consumatori, niente di più lucrativo e al tempo stesso etico, perché tendente alla soddisfazione di un bisogno. Dove avviene il corto circuito?

Anche se spesso è difficile fare una distinzione netta, alcuni bisogni sono autentici, altri invece sono indotti artificialmente oppure gonfiati e stravolti. Un esempio. Oggi tra i preadolescenti e i bambini ‘va di moda’ il wrestling, una lotta spettacolo che proviene dagli USA e che in Italia è arrivata accompagnata da un gran battage pubblicitario e da una serie di gadget (figurine, pupazzetti, costumi…). Ora, è un bisogno dei bambini fare la lotta. Da sempre, a partire dai quattro-cinque anni ai bambini piace lottare per gioco. Giocano i maschi e giocano anche le femmine. E’ una attività che fanno anche i cuccioli di altri mammiferi. C’è il piacere del contatto fisico, c’è improvvisazione, c’è apprendimento (si capisce fin dove ci si può spingere, quando fa male…), c’è divertimento e c’è anche comunicazione. Tutt’altra cosa è invece il wrestling, che non è una lotta spontanea nè una lotta vera e propria ma fiction, ossia una rappresentazione della lotta che può dare l’impressione di essere innocua, quando invece i colpi che i lottatori si scambiano (per finta e grazie a un lungo allenamento), se ripetuti tali e quali nella realtà e senza un pavimento elastico su cui cadere e rimbalzare, potrebbero essere micidiali. Quindi, i nostri bambini non avevano ‘bisogno’ del wrestling, il wrestling è stato introdotto da chi aveva interesse a diffonderlo e ora viene spacciato per un ‘bisogno’ dei bambini, i quali amano la lotta…

Sotto accusa cadono i focus group e il viral marketing. Tecniche invasive per la coscienza? Cosa avviene nella mente di un bambino?

Un bambino ha una visione ottimistica della pubblicità. Così come ottimistico e fiducioso è il suo rapporto con gli adulti. Prende alla lettera le informazioni. Non pensa che lo si voglia ingannare o strumentalizzare. Ed è giusto che sia così. Anche quando distingue gli spot da altri programmi o capisce che la pubblicità serve per vendere, pensa ai ‘consigli per gli acquisti’, non a condizionamenti o a sottile tecniche di persuasione. D’altro canto, sono molti gli adulti che pensano allo stesso modo e seguono diligentemente i ‘consigli’.

E’ nota la distinzione tra pubblicità informativa (es. le pubblicità progresso), che si limita ad informare sulle caratteristiche dei prodotti e fornisce al consumatore gli elementi per poter giudicare e pubblicità persuasiva che invece intende influenzare e sedurre affiancando alla marca e al prodotto stimoli che non c’entrano nulla con le caratteristiche del prodotto. Si punta alle emozioni, si creano delle suggestioni, dei climi, delle atmosfere… Le stesse tecniche, com’è noto, sono ampiamente usate anche nella campagne politiche: il viso rassicurante o ridente del candidato, oppure lo slogan accattivante che si imprime nella memoria, vale, per l’elettore ingenuo, più del programma elettorale. Ovviamente, non tutti siamo elettori ingenui…

Per quale motivo è pericolo il nag factor?

Incrina il rapporto genitori-figli. Toglie autorevolezza e anche sicurezza ai genitori nel momento in cui – per stanchezza, sensi di colpa, timore che il proprio figlio possa sentirsi discriminato o inferiore ai compagni – cedono a richieste a cui non avrebbero voluto cedere.

I bambini si abituano a gratificarsi con l’acquisizione di oggetti oppure ingerendo quei cibi colorati che vedono reclamizzati dapertutto (l’obesità infantile è molto diffusa negli USA e si sta diffondendo anche da noi come in altri paesi). I bambini crescono guidati da tecniche comportamentiste che li condizionano e li modellano. Se l’azione educativa di genitori, insegnanti ecc. non è sufficientemente incisiva, essi rischiano di crescere del tutto eterodiretti e di non sviluppare degli spazi interiori di riflessione, ragionamento e anche di ascolto dei propri stati psichici e fisici. Per quanto riguarda i prodotti alimentari, per esempio, i bambini che imparano a mangiare in risposta a stimoli esterni e non in base ai segnali di fame o di sazietà provenienti dal proprio stomaco, rischiano di perdere il contatto con il proprio corpo, come accade agli obesi.

Mi perdoni, ci cado sempre, ma credo sia il tema più importante: se i bambini vogliono omologarsi agli altri bambini… c’è un forte problema di identità che si tramuta in identificazione?

L’omologazione può dare sicurezza, l’Io dei bambini e dei ragazzi è in trasformazione ed è comprensibile e naturale che si appoggi al Noi del gruppo dei coetanei o al Noi generazionale proposto da altre entità come media, musica giovanile, mode (piercing, tatuaggi ecc.). Non bisognerebbe però mai rinunciare a coltivare anche l’Io individuale, perchè bisogna anche saper scegliere, saper dire ‘si’ e ‘no’ a ragion veduta e non solo per compiacere il gruppo ed essere in sintonia con la maggioranza. Il conformismo diffuso è squallido e deprimente. Ammazza la creatività e non consente ad una comunità di evolvere. C’è bisogno di persone che sappiano pensare con la propria testa e possiedano il coraggio per opporsi quando è necessario; ma questo è frutto di un lungo processo educativo … ci vogliono i buoni maestri.

In un suo testo leggo: ‘Nel contesto socio-culturale di questi anni l’individuo – immerso in un flusso euforizzante di sensazioni e modelli di identità diversi – vive una sorta di dilatazione dell’Io che potenzia il desiderio ma indebolisce l’identità.’

C’è questo rischio che, tra l’altro, dà un’impressione di onnipotenza che alla prova dei fatti può riservare cocenti delusioni. Sembra di potere tutto, di avere diritto a tutto, di doversi concere tutto e, arrivati alle soglie della giovinezza, si ha paura di scegliere, di imprimere una direzionalità alla propria vita perchè ciò significherebbe chiudersi delle porte alle spalle, precludersi delle possibilità… Si tratta di una condizione che è normale nel corso dell’adolescenza (Erik Erickson parla di ‘moratoria’, di sospensione temporanea dell’identità individuale), può diventare però un impedimento in seguito.

E poi c’è la comunicazione. Si torna al problema della TV. E quindi torna un tema che abbiamo già trattato nella nostra precedente ‘chiacchierata’1. E abbiamo già detto che i genitori dovrebbero ‘socializzare’ la televisione, come un normale agente della vita quotidiana. E oggi sottoaccusa viene anche messo il westriling che mediaset vorrebbe portare nel prime time… Mi sà che mi sto incasinando le idee. Con calma riprendiamo le redini. I genitori cosa possono fare? come difendere i propri figli?

Sono sempre più convinta della necessità di ‘scuole per genitori’ (non la scuola classica ma gruppi di incontro e di discussione), nel senso che i genitori di oggi dovrebbero riflettere di più sui principi educativi da adottare con i bambini e i ragazzi di questa nostra epoca. Nel giro di pochi decenni ci sono state enormi trasformazioni nello stile di vita sociale, familiare, individuale e di coppia. La scuola è in crisi e televisione e play station occupano uno spazio eccessivo nell’arco della gioranta. La televisione è dominata, oggi, da una logica commerciale e i buoni programmi non sono numerosi. Bisogna comprendere quali sono i reali bisogni di crescita di bambini e ragazzi e contrastare forme di dipendenza precoce che passivizzano, non abituano a lottare, iperproteggono (oppure trascurano, abbandonano) e quindi non preparano a sufficienza alla vita che verrà.

La ringrazio per la cortesia e l’attenzione che ci ha voluto prestare. Questa chiacchierata non voleva essere esaustiva, ma uno spunto per gli altri ricercatori, studenti e docenti per continuare la nostra chiacchierata attraverso il nostro blog. A presto dunque.

1 (URL=http://www.comunitazione.it/leggi.asp?id_art=203&id_area=157&mac=4)

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