Finisce l’anno 2010, ed è tempo di bilanci: morti per droga, per incidenti stradali dovuti all’ubriachezza ed alla droga; donne uccise; ammazzati dalla malavita; bambini scomparsi; numero dei reati; arrestati, detenuti, assolti, prosciolti ecc.
Una marea di cifre per nascondere la realtà di una società che si avvia alla dissoluzione, incapace di difendere sé stessa ed i suoi componenti, in particolare i più fragili, i più indifesi, i suoi figli.
Quante Sara abbiamo visto comparire sui teleschermi e poi scomparire per sempre dalla vista e dalla memoria in questi anni?
Quante Yara abbiamo visto cercare e trovare spazio sulle pagine dei giornali e in televisione fino al momento in cui qualche altro evento, più succulento dal punto di vista dell’audience e della vendita di copie non le ha fatte cadere nel dimenticatoio?
Tante, insieme ai Tommy, ai piccolissimi di cui nessuno ricorda più né il volto né il nome.
E’ una società che si è assuefatta al male, che accetta tutto con rassegnazione, se non con indifferenza.
Ci propongono, per combattere la mafia, “Il padrino”, “Il capo dei capi”, “L’onore e il rispetto”, tutti films e sceneggiati apologetici che presentano mafiosi come non ne sono mai esistiti, con regole di un onore che non hanno mai avuto, con una dignità che non sanno nemmeno cosa sia, per alimentare leggende di cui la storia e la verità hanno giustizia da tempo.
Ci proiettano films su malavitosi da trivio e d’ accatto, come quelli della banda della Magliana e Renato Vallanzasca, spacciati per “fiori del male”, invece che presentati per i topi di fogna che sono stati.
Fanno sfilare in televisione finti ravveduti e pentiti, perché dicano ai loro simili che non si devono preoccupare, che possono fare quello che desiderano, tanto poi il carcere li recupera, li rieduca e gli consente di rifarsi una vita e, spesso, anche i reati.
E’ un continuo susseguirsi di immagini, di interviste, di storie che si abbattono su una popolazione indifesa che non comprende a chi interessi la storia d’amore di Renato Vallanzasca, periodicamente riproposta per motivi oscuri e certamente abietti, cosi la lieta novella del fidanzamento di Marco Furlan, che ha scontato 17 anni di carcere per quindici omicidi mancando per un soffio l’ obiettivo di incendiare una discoteca nella quale avrebbero potuto trovare la morte qualche centinaio di giovani, per tacere della nuova vita di Pietro Maso, massacratore di padre e madre per impadronirsi dell’eredità.
Questo è il mondo in cui fanno vivere una generazione che si affaccia ora alla vita, insegnando che il male non esiste, sostituito dallo “sbaglio” che si può e si deve rimediare con la rieducazione, ma dove non esiste nemmeno il bene perché tutti gli uomini sbagliano e nessuno ha, quindi, il diritto di ergersi a giudice degli altri e tantomeno di condannare.
Un mondo senza luce, dove un’ oscurità perenne rende tutti egualmente peccatori, un
purgatorio perenne dove però sono chiamati ad espiare solo i deboli e gli innocenti.
L’inferno non esiste più. La Chiesa lo ha dichiarato uno stato d’animo, intriso di tristezza perché l’anima è lontana da Dio, ma senza sofferenze per carità, ma quale espiazione, suvvia, un giorno Dio perdonerà tutti, anche i più incalliti fra i peccatori.
Cosi, un poco al giorno, lentamente, il veleno è stato iniettato in una società chiamata a condannare chi condanna, a punire chi punisce, perché la giustizia “giusta” è quella che assolve o, comunque, è clemente; e civile è quello Stato che non condanna a morte chi magari, ha ucciso decine di persone dopo averle atrocemente seviziate, ma lo rieduca, con il lavoro in carcere, il televisore a colori, il permesso premiale, la semi-libertà , ecc. ; buono è il padre che parla da amico con i figli e, magari, si droga con loro o lascia la camera da letto a disposizione delle figlia che deve fare le sue esperienze e vivere i suoi amori giovanili.
Una sovversione totale, capillare, di tutti i valori e di tutte le regole per distruggere una società senza avere un modello per ricostruirla.
Il primo passo è compiuto: questa non è più una società civile, è un insieme smarrito di uomini e di donne che vivono senza certezze, che si nutrono solo di dubbi, che procedono fra i “ma” e i “se” di chi non è più in grado di affermare anche una sola verità, la più elementare,che può darsi che sia sbagliata, anch’essa, come tutto il resto.
E Yara e le altre? Fanno audience,le interviste televisive, la predica del prete, le veglie di preghiera, i commenti degli esperti di turno, capaci di incolpare loro, Yara e le altre, per aver dato fiducia a chi non la meritava, per non essere state sufficientemente accorte, perché non c’è un limite alla decenza.
Così come quando si giunge alla domanda: come le difendiamo? Ecco tutti arrampicarsi sugli specchi del non dire, dell’ attendere che lo dica un altro, per trovarsi infine tutti d’accordo sul fatto che bisogna varare una campagna pubblicitaria per indurre Yara e le altre a non fidarsi di nessuno, nemmeno di mamma e papà.
Nessuno, però, ha ancora proposto di lanciare una campagna pubblicitaria diretta ai mostri (senza virgolette) per indurli a rispettare Yara, le altre, gli innocenti.
Sanno che è inutile, ma in fondo non gli interessa a politici, giornalisti ed esperti di Yara e le altre.
Non hanno avuto la faccia tosta di far sapere alla mamma di Sara Scazzi che i carabinieri stavano cercando il cadavere della figlia in diretta tv dalla casa di chi l’aveva uccisa?
Poi, si sono autocommiserati e hanno dibattuto se la televisione deve porsi dei limiti oppure no.
Quante volte abbiamo ascoltato attoniti i giornalisti che chiedevano a padri e a madri, straziati dal dolore, “cosa prova in questo momenti?”, “è disposto a perdonare?”.
Abbiamo atteso invano un gesto liberatorio, certo violento ma non eccessivo, come quello di infilare il microfono in bocca all’intervistatore, spulandogli in un occhio, ma persone schiantate dal dolore non si sanno difendere.
Forse sarebbe giusto che altri prendessero a pedate questi giornalisti ai quali, dopo, chiedere “cosa prova adesso?”, “è disposto a perdonare?”.
Le conseguenze non consigliano di procedere con metodi cosi diretti, perché si scatenerebbe la campagna per la difesa della libertà di informazione con la richiesta di pene severissime per quanti la insidiano.
Perché, gli italici giornalisti alla ricerca disperata di chi è disposto a perdonare chi gli ha ammazzato un figlio o una figlia, i calci in culo non li perdonerebbero di certo.
E Yara e le altre?
Tutti nella nostra coscienza sappiamo come vanno difese, protette e, se del caso, vendicate. Perché la giustizia è anche la vendetta di una società giusta che la racchiude in una parola sola: morte.
Vincenzo
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