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Finisce l’anno 2010, ed è tempo di bilanci: morti per droga, per incidenti stradali dovuti all’ubriachezza ed alla droga; donne uccise; ammazzati dalla malavita; bambini scomparsi; numero dei reati; arrestati, detenuti, assolti, prosciolti ecc.

Una marea di cifre per nascondere la realtà di una società che si avvia alla dissoluzione, incapace di difendere sé stessa ed i suoi componenti, in particolare i più fragili, i più indifesi, i suoi figli.

Quante Sara abbiamo visto comparire sui teleschermi e poi scomparire per sempre dalla vista e dalla memoria in questi anni?

Quante Yara abbiamo visto cercare e trovare spazio sulle pagine dei giornali e in televisione fino al momento in cui qualche altro evento, più succulento dal punto di vista dell’audience e della vendita di copie non le ha fatte cadere nel dimenticatoio?

Tante, insieme ai Tommy, ai piccolissimi di cui nessuno ricorda più né il volto né il nome.

E’ una società che si è assuefatta al male, che accetta tutto con rassegnazione, se non con indifferenza.

Ci propongono, per combattere la mafia, “Il padrino”, “Il capo dei capi”, “L’onore e il rispetto”, tutti films e sceneggiati apologetici che presentano mafiosi come non ne sono mai esistiti, con regole di un onore che non hanno mai avuto, con una dignità che non sanno nemmeno cosa sia, per alimentare leggende di cui la storia e la verità hanno giustizia da tempo.

Ci proiettano films su malavitosi da trivio e d’ accatto, come quelli della banda della Magliana e Renato Vallanzasca, spacciati per “fiori del male”, invece che presentati per i topi di fogna che sono stati.

Fanno sfilare in televisione finti ravveduti e pentiti, perché dicano ai loro simili che non si devono preoccupare, che possono fare quello che desiderano, tanto poi il carcere li recupera, li rieduca e gli consente di rifarsi una vita e, spesso, anche i reati.

E’ un continuo susseguirsi di immagini, di interviste, di storie che si abbattono su una popolazione indifesa che non comprende a chi interessi la storia d’amore di Renato Vallanzasca, periodicamente riproposta per motivi oscuri e certamente abietti, cosi la lieta novella del fidanzamento di Marco Furlan, che ha scontato 17 anni di carcere per quindici omicidi mancando per un soffio l’ obiettivo di incendiare una discoteca nella quale avrebbero potuto trovare la morte qualche centinaio di giovani, per tacere della nuova vita di Pietro Maso, massacratore di padre e madre per impadronirsi dell’eredità.

Questo è il mondo in cui fanno vivere una generazione che si affaccia ora alla vita, insegnando che il male non esiste, sostituito dallo “sbaglio” che si può e si deve rimediare con la rieducazione, ma dove non esiste nemmeno il bene perché tutti gli uomini sbagliano e nessuno ha, quindi, il diritto di ergersi a giudice degli altri e tantomeno di condannare.

Un mondo senza luce, dove un’ oscurità perenne rende tutti egualmente peccatori, un

purgatorio perenne dove però sono chiamati ad espiare solo i deboli e gli innocenti.

L’inferno non esiste più. La Chiesa lo ha dichiarato uno stato d’animo, intriso di tristezza perché l’anima è lontana da Dio, ma senza sofferenze per carità, ma quale espiazione, suvvia, un giorno Dio perdonerà tutti, anche i più incalliti fra i peccatori.

Cosi, un poco al giorno, lentamente, il veleno è stato iniettato in una società chiamata a condannare chi condanna, a punire chi punisce, perché la giustizia “giusta” è quella che assolve o, comunque, è clemente; e civile è quello Stato che non condanna a morte chi magari, ha ucciso decine di persone dopo averle atrocemente seviziate, ma lo rieduca, con il lavoro in carcere, il televisore a colori, il permesso premiale, la semi-libertà , ecc. ; buono è il padre che parla da amico con i figli e, magari, si droga con loro o lascia la camera da letto a disposizione delle figlia che deve fare le sue esperienze e vivere i suoi amori giovanili.

Una sovversione totale, capillare, di tutti i valori e di tutte le regole per distruggere una società senza avere un modello per ricostruirla.

Il primo passo è compiuto: questa non è più una società civile, è un insieme smarrito di uomini e di donne che vivono senza certezze, che si nutrono solo di dubbi, che procedono fra i “ma” e i “se” di chi non è più in grado di affermare anche una sola verità, la più elementare,che può darsi che sia sbagliata, anch’essa, come tutto il resto.

E Yara e le altre? Fanno audience,le interviste televisive, la predica del prete, le veglie di preghiera, i commenti degli esperti di turno, capaci di incolpare loro, Yara e le altre, per aver dato fiducia a chi non la meritava, per non essere state sufficientemente accorte, perché non c’è un limite alla decenza.

Così come quando si giunge alla domanda: come le difendiamo? Ecco tutti arrampicarsi sugli specchi del non dire, dell’ attendere che lo dica un altro, per trovarsi infine tutti d’accordo sul fatto che bisogna varare una campagna pubblicitaria per indurre Yara e le altre a non fidarsi di nessuno, nemmeno di mamma e papà.

Nessuno, però, ha ancora proposto di lanciare una campagna pubblicitaria diretta ai mostri (senza virgolette) per indurli a rispettare Yara, le altre, gli innocenti.

Sanno che è inutile, ma in fondo non gli interessa a politici, giornalisti ed esperti di Yara e le altre.

Non hanno avuto la faccia tosta di far sapere alla mamma di Sara Scazzi che i carabinieri stavano cercando il cadavere della figlia in diretta tv dalla casa di chi l’aveva uccisa?

Poi, si sono autocommiserati e hanno dibattuto se la televisione deve porsi dei limiti oppure no.

Quante volte abbiamo ascoltato attoniti i giornalisti che chiedevano a padri e a madri, straziati dal dolore, “cosa prova in questo momenti?”, “è disposto a perdonare?”.

Abbiamo atteso invano un gesto liberatorio, certo violento ma non eccessivo, come quello di infilare il microfono in bocca all’intervistatore, spulandogli in un occhio, ma persone schiantate dal dolore non si sanno difendere.

Forse sarebbe giusto che altri prendessero a pedate questi giornalisti ai quali, dopo, chiedere “cosa prova adesso?”, “è disposto a perdonare?”.

Le conseguenze non consigliano di procedere con metodi cosi diretti, perché si scatenerebbe la campagna per la difesa della libertà di informazione con la richiesta di pene severissime per quanti la insidiano.

Perché, gli italici giornalisti alla ricerca disperata di chi è disposto a perdonare chi gli ha ammazzato un figlio o una figlia, i calci in culo non li perdonerebbero di certo.

E Yara e le altre?

Tutti nella nostra coscienza sappiamo come vanno difese, protette e, se del caso, vendicate. Perché la giustizia è anche la vendetta di una società giusta che la racchiude in una parola sola: morte.

Vincenzo

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La morte di un’infermiera romena, a Roma, colpita con un pugno in pieno volto da un “bullo” di venti anni, rappresenta l’apoteosi del femminismo proteso a cancellare ogni differenza fra uomini e donne.

Nessuno, nel poco spazio che è stato dedicato a questa vicenda che ricopre di ignominia l’intera Nazione, ha osato affermare che solo un vigliacco può colpire una donna.

Non si deve dire,perché altrimenti si cade nella discriminazione di chi pretende che la donna sia fisicamente più debole di un uomo.

Perbacco, non diciamolo altrimenti rimettiamo in discussione la acquisita parità fra uomo e donna, per la quale le femministe italiane hanno sempre lottato.

In fondo, a Milano c’è in carcere una “bulla” che, insieme a due uomini, ha partecipato al pestaggio di un taxista, mentre ad Avetrana si palesa la possibilità dell’ omicidio di una ragazzina di 15 anni compiuto o favorito da altre donne.

Bisogna essere moderni, adeguati ai tempi in cui viviamo. Finiti i tempi in cui, nell’Ottocento, si riteneva meritevole di disprezzo chi offendeva una donna.

Oggi, va di moda Vittorio Sgarbi, i cui insulti alle donne vanno in diretta televisiva e gli procurano rinnovati inviti a tutte le trasmissioni per l’alto valore pedagogico che i suoi comportamenti hanno sui bambini e gli adolescenti incollati davanti ai televisori.

Se si può dare della “m…a” ad una donna in diretta televisiva, perché non tirarle un cazzotto in faccia, se si presenta l’occasione?

Il vigliacco di Roma, recidivo perché aveva già picchiato un’ altra donna, è andato in carcere sorridendo mentre altri infami lo applaudivano e ne richiedevano la liberazione.

Lo sa il codardo che per l’omicidio di una donna pagherà un prezzo irrisorio, perché la pena massima prevista per un caso del genere è di 15 anni, ma bisogna toglierne 5 per il “rito abbreviato”; in più ci sono le attenuanti della giovane età, magari quelle della “provocazione” perché la povera donna ha “osato” passare davanti al “bullo” al quale nessuno ha insegnato a cedere il passo ad una donna, che comportano altri anni di sconto così che si arriva a non più di cinque o sei anni, dai quali bisogna detrarre la “liberazione anticipata”, i “permessi premiali” e l’affidamento in prova al servizio sociale quando mancheranno tre anni al fine pena.

In totale, il “bullo” farà, forse, due o tre anni di carcere, magari rilasciando interviste a pagamento per dire che è stato “sfortunato”, che la povera infermiera è morta non per il suo pugno ma perché ha battuto la nuca sul pavimento della metropolitana, che comunque lo ha provocato e che lui che altro poteva fare se non reagire da maschio?

Non c’è limite allo schifo in questo Paese distrutto, quindi attendiamoci questo ed altro.

Non possiamo fare altro che esprimere pietà verso una donna, l’ennesima, uccisa dalla violenza di chi è cresciuto nel convincimento che tutto gli è permesso, anche prendere a pugni in faccia una donna ed essere applaudito come si conviene ad un eroe di questi tempi.

In fondo, è andato un po’ oltre a quello che fa Vittorio Sgarbi in televisione, quindi perché recriminare?

Una giovane donna è morta, un bambino di tre anni è rimasto orfano, una famiglia piange, e il “bullo” ride.

Così è l’Italia di oggi, senza decoro e senza pietà.

Vincenzo

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Era prevedibile che sulla donna iraniana condannata a morte per concorso nell’omicidio del marito e per adulterio, si scatenasse l’abituale campagna stampa contro un Paese che, in definitiva, ha una sola colpa: quella di essere annoverato fra i nemici dell’Occidente.

Le leggi islamiche sono, difatti, in vigore anche in altri Passi, dove vengono applicate con lo stesso rigore senza che questo scateni campagne umanitarie che urterebbero la sensibilità e la suscettibilità di governi amici dell’Occidente.

L’Arabia saudita, dove la sharia è legge di Stato, non è mai stata oggetto di attacchi politici e mediatici da parte dei Paesi occidentali per i quali, evidentemente, i diritti umani vanno difesi solo in quei posti dove le contingenze politiche lo richiedono.

Nessuno ha mai visto i politici italiani e la stampa mobilitarsi contro l’uso di far sfilare una donna nuda per le strade, come in uso in certe zone del Pakistan, amico degli Stati uniti, per punirla di comportamenti sessuali illeciti.

Lunga sarebbe la lista delle pene inflitte alle donne nei Paesi governati dagli amici e dagli alleati degli Stati uniti, delle quali nessuno osa parlare e, tantomeno, chiede di condannare.

Ma, quello che qui interessa è porre in rilievo come si usa una tragedia umana, come quella che coinvolge una donna, per un uso politico fingendo di non sapere che la condannata è stata giudicata da un Tribunale, nel rispetto dei suoi diritti alla difesa, che ha ammesso le sue responsabilità, che è detenuta da quattro anni, che, infine, se sarà uccisa pagherà per le sue colpe dinanzi alla giustizia del suo Paese di cui lei conosce le leggi e le pene.

Quante donne, in Italia ed in Europa, negli stessi giorni in cui scattava la mobilitazione politica e mediatica per la donna iraniana, sono state uccise per motivazioni varie e in modi diversi?

La differenza fra queste donne e quella iraniana è che loro sono state “giustiziate” innocenti, senza colpa, vittima di una barbarie che la giustizia occidentale non riesce più a contenere, per il massimo delle sue leggi, per la mancanza di senso della giustizia per il quale oggi l’assassino ha il diritto di ritornare nella società e riprendere il suo posto, dopo aver scontato una pena che spesso è irrisoria.

Alle donne italiane è rimasto il dovere di morire,ai loro assassini il diritto di vivere per essere recuperati alla società civile!

E’ un incitamento alla violenza ed all’omicidio, questo modo di intendere la giustizia per la quale i morti hanno il torto di essere morti, e i vivi che li hanno ammazzati hanno il diritto di “rifarsi una vita” perché, purtroppo, qualche anno di galera devono ancora farglielo fare, anche se stanno tentando di tutto per risparmiargli anche quello.

La vicenda tragica della donna iraniana ci pone dinanzi all’evidenza di due modi diametralmente opposti di concepire la giustizia: quello iraniano, dove chi uccide può essere ucciso, e quello italiano dove chi ha ucciso viene intervistato in televisione e, alla fine, gli fanno anche il film.

Inoltre, in Iran, secondo la legge islamica, la donna può salvarsi se i familiari della vittima le concederanno il loro perdono, perché solo a questi ultimi è riconosciuto il diritto di perdonare, mentre da noi lo rivendicano e lo esercitano direttori di carcere, magistrati di sorveglianza, politici e giornalisti, nessuno dei quali ha mai conosciuto la vittima.

Quante volte abbiamo ascoltato le parole accorate dei familiari delle vittime chiedere giustizia? Quanto volte li abbiamo sentiti recriminare perché gli uccisori dei loro cari erano già tornati in libertà, protervi ed arroganti?

Prendiamo, quindi, esempio dalla vicenda umana della donna iraniana per la quale non facciamo fatica ad esprimere l’augurio che possa comunque vivere, per riflettere sulle condizioni della nostra giustizia e del modo con il quale difende le donne.

Quanti uomini per i quali sparare, accoltellare, strangolare una donna è stata cosa facile, spiegandola con i motivi passionali, quasi che si possa far credere che sia l’amore ad indurre ad uccidere e non l’odio, si sarebbero fermati dinanzi alla prospettiva di essere a loro volta uccisi?

Nessuno pubblicizza il fatto che ad occuparsi del codice penale in Afghanistan, ci sono esperti italiani che lì fanno l’esatto contrario di quello che fanno qui: difatti, il codice penale afghano prevede la pena di morte e la fustigazione, che evidentemente sono ritenute compatibili con la civiltà di quel popolo.

Dato che l’Afghanistan attuale è sotto il controllo americano e della Nato, tutto appare lecito, compresa la condanna a morte e la fustigazione delle donne, comminate con l’avallo dell’Italia.

La falsità della politica e della stampa è cosa nota, ma si potrebbe cominciare a chiedere che si ristabilisca qui la giustizia, oggi inesistente.

Si potrebbe iniziare a pretendere che la difesa delle donne e dei loro corpi violati e maltrattati si faccia qui con lo stesso rigore che esiste in quei Paesi dove la vita umana ha ancora valore, dove non si può impunemente uccidere degli innocenti e dove ancora oggi si paga con giusta severità la violenza esercitata sulle donne.

Si, perché oggi si strepita per la vita della donna iraniana, ma da sempre si tace sulle condanne a morte degli uomini che hanno ucciso e violato delle donne.

Non sarebbe sbagliato proporre un referendum femminile per decidere quali pene infliggere ai carnefici delle donne. Le prime ad uscirne condannate sarebbero la politica e la giustizia attuale.

E, magari, per la prima volta, vedremo in televisione apparire qualcuno che dichiari come sia prioritaria la difesa della vita delle nostre donne innocenti, rispetto a quella di una donna colpevole di omicidio in un Paese lontano.

Sarebbe un primo decisivo passo per resuscitare la giustizia in Italia ed innalzare una prima, concreta barriera a difesa delle nostre donne.

Vincenzo

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Un corpo da sfruttare. L’uso che la cosiddetta civiltà occidentale fa del corpo delle donne e solo strumentale, serve a vendere prodotti, ad aumentare l’audience, a far affluire spettatori al cinema, a procurare voti ai partiti, a far fare carriera ai mariti, ai fidanzati e agli amanti.

Nella società post-femminista, lo spettacolo dello sfruttamento della donna, per quello che essa vale sul piano fisico ed estetico ha superato i limiti del tollerabile.

Non c’è un solo campo, ormai, in cui la donna non sia presa a pretesto per qualsiasi cosa, perfino per attaccare i regimi ostili all’Occidente.

Non vogliamo entrare nel merito dei torti e delle ragioni della contrapposizione fra i paesi dell’Unione europea, Israele e Stati uniti, da un lato, e la Repubblica islamica dell’Iran, dall’altro, ma ci chiediamo se anche in politica estera per fomentare l’ostilità nei confronti del “nemico” è necessario utilizzare soprattutto le donne ed il loro corpo.

Ci avevano provato con Neda, la sedicenne rimasta uccisa nel corso di scontri fra la polizia iraniana e gli oppositori del governo, per poi dover ammettere che il viso bellissimo della ragazza era quello di un’altra, viva e vegeta.

Perché, per toccare il cuore degli uomini, la donna deve essere anche bella e, da quelle parti, le leggi islamiche non consentono l’esibizione del corpo, ma solo del viso.

Ci stanno ritentando oggi, con il caso di una donna di 43 anni, condannata a morte per concorso in omicidio. Anche di questa hanno trasmesso in televisione la foto di una donna certamente bella, ma che nessuno garantisce che si tratti della protagonista, di una storia tragica sulla quale a noi appare indegno speculare.

Sarà perché lo sciacallaggio non ci appartiene, ma assistere allo spettacolo della mobilitazione dell’opinione pubblica per salvare la vita a questa donna, affermando che ha confessato in televisione la sua colpa perché torturata, che sarà lapidata perché colpevole di aver intrattenuto rapporti sessuali illeciti con due uomini, ritenuta colpa prevalente su quello dell’omicidio, ci pare eccessivo,anzi inaccettabile.

Soprattutto perché di donne uccise per reati per i quali è prevista la pena di morte nei paesi arabi e in tutti gli altri che la contemplano, sono piene le cronache. Solo che di queste donne non parla nessuno.

All’ Occidente non interessano le donne saudite, pakistane,yemenite, cinesi, irachene ecc. che finiscono dinanzi ai Tribunali per rispondere di crimini che contemplano condanne a morte e punizioni corporali.

Di tutto questo si parla, falsificando la realtà, sono se riguardano donne iraniane o afghane, vittime queste ultime ovviamente, degli immancabili talebani.

E tutte le altre? Se i governi dei loro paesi sono alleati degli Stati uniti e amici di Israele e dell’Unione europea, possono morire senza una parola di difesa e di pietà.

L’uso della donna e del suo corpo è ritenuto funzionale solo contro i nemici di una civiltà che è difficile, ormai, riconoscere come tale specie per il modo in cui tratta le sue donne.

Ci sono realtà diverse da quelle imposte a noi, così se in Iran, in Arabia saudita, Pakistan e così via una donna che uccide può essere a sua volta, uccisa dalla Stato in nome di una giustizia che ben conosciamo perché è stata anche nostra e non nei secoli passati, perché la pena di morte in Italia è stata abolita solo nel 1947, a maggioranza non all’unanimità ed il suo ripristino è stato più volte sollecitato anche da esponenti politici oggi ai vertici delle istituzioni, tanto ci può ispirare pietà per l’omicida ma non ci consente di giudicare e, tanto meno, di strumentalizzare una tragica vicenda umana per fini politici.

Perché, per equità, la televisione italiana non ci parla delle pene previste per chi violenta le donne e le uccide, in uso in quei Paesi?

Non conviene, visto che in Italia la pena di morte per le donne e le pene corporali, eseguite mediante violenza carnale e pestaggi, sono praticamente quotidianamente ed i loro autori sono condannati a pene irrisorie confortate dalla concessione di tutti i benefici di legge.

Invece, in Italia e non solo, perfino la violenza e l’uccisione delle donne è utilizzata per fare soldi: quanti sono i film e i telefilm quotidianamente trasmessi in questo Paese, in cui ci si compiace di descrivere le azioni di un serial killer di donne, di violentatori all’opera con la ripresa dettagliata delle loro imprese perché bisogna attirare l’attenzione morbosa degli spettatori?

IL corpo della donna attira, meglio se esposto, umiliato, tormentato, torturato. I produttori devono guadagnare, Rai e Mediaset devono vincere la guerra dell’audience, così perfino le presentatrici e le vallette dei quiz televisivi devono mostrare tutto quello che possono, meglio ancora se in sceneggiati, film e telefilm è possibile mostrare meglio e di più in scene di morte, di sesso e violenza.

Sarebbe, forse, il caso di introdurre una legge che vieti le scene di violenza sulle donne, specie quando nessuno ci mostra le punizioni dei violentatori, così che si esibisce il reato ma non il castigo, con il risultato di incentivare le violenze non di farle diminuire.

Invece, per odio politico e fini di bassa propaganda, di parlare della condanna a morte di una donna iraniana, colpevole di omicidio, per suscitare pietà perché non proviamo ad incentivare la pietà per le nostre donne in questo Paese?

Donne uccise, innocenti, perché non hanno ucciso nessuno; donne violate, calpestate, umiliate, pestate in nome di consuetudini radicate mai eliminate dalla coscienza degli uomini per i quali, forse, sarebbe il caso di ricorrere a quelle pene coraniche di cui nessuno mai parla.

Non si può fare? Ma, almeno, inaspriamo le nostre ed imponiamo il rispetto per il corpo delle donne che è la fonte della vita, non il mezzo per vendere dentifrici, aumentare l’audience, fomentare l’odio contro gli stranieri.

La donna è la vita, la sua bellezza, la sua tenerezza,il suo fascino se la sua essenza.

Difendiamola.

Vincenzo

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I telegiornali danno la notizia, con il solito tono neurale, della madre che, a Bari, dopo aver litigato con il compagno, ha massacrato il figlio di 7 mesi, ora ricoverato in fin di vita.

Forse, apparteniamo ad un’altra epoca, veniamo da un mondo lontano nel quale un episodio del genere avrebbe suscitato un orrore vero, spontaneo, non stimolato dall’ascolto dei telegiornali, così che pensiamo ad un piccolo essere umano di 7 mesi, che suscita tenerezza solo a guardarlo, massacrato dalla madre.

Abbiamo perso il conto degli episodi terribili di questo genere. Non è possibile contarli, ripercorre con la memoria quali e quanti in questi anni giornali e televisioni ci hanno raccontato senza suscitare emozione ed indignazione.

Ad essere sinceri, la stampa e la televisione si sono impegnate, a volte, a favore degli assassini, come nel caso di Anna Maria Franzoni che, dopo aver massacrato suo figlio, si è addirittura preteso che il presidente della Repubblica le concedesse subito la grazia per evitarle di scontare la condanna a 16 anni di reclusione alla quale dopo anni di battaglie mediatiche, era stata infine condannata.

E i bambini?

Quando si decide, sempre più raramente, di suscitare l’indignazione lo si fa per ragioni strumentali, come nel caso del bambino sequestrato ed ucciso da Mario Alessi, in un momento in cui la Chiesa era impegnata ad affermare la “sacralità della vita”.

In quel caso, si spinse lo zelo mediatico a trasmettere in televisione le immagini del funerale. E così tutti abbiamo avuto modo di assistere allo spettacolo tristissimo dei genitori che attendono, come attori che recitano, che si dia il via le riprese per far prendere la piccolissima bara bianca dal furgone mortuario, giunto in anticipo sull’orario, per portarla in chiesa.

Mai spettacolo più doloroso è stato quello di vedere il furgone fermo sulla strada, dinanzi alla chiesa, circondato da migliaia di persone, tutte immobili in attesa che il regista segnalasse che la diretta televisiva era iniziata.

La morte come spettacolo deve indignare ed emozionare a comando, caso per caso.

Non troviamo quindi sorprendente che, dinanzi all’indifferenza sostanziale, dell’opinione pubblica i delitti contro l’infanzia, sempre più spesso compiuti da padri e madri, si moltiplichino, fino a rientrare quasi nella normalità come furti e rapine.

Il copione lo conosciamo: la mamma assassina andrà in ospedale psichiatrico perché depressa, al momento dell’omicidio, il padre assassino invocherà le attenuanti generiche e magari, anche lui, la semi-infermità mentale.

La recita stanca. I bambini li seppelliscono e se ne ricordano, ogni tanto, per le statistiche o quando, guarda caso, non fanno vedere l’intervista a qualche madre che, ovviamente, si tormenta per il rimorso.

Ma lei vive, suo figlio no.

Da quanti anni, ormai, la moda corrente in questo Paese è l’esibizione del rimorso, del pentimento, del pianto di quanti hanno ucciso senza pietà i loro figli, senza che mai ci sia la possibilità di comprendere quanto siano sinceri quei sentimenti che ostentano dinnanzi alle telecamere.

E’ la moda del pietismo ad ogni costo, del perdonismo ad oltranza, del ravvedimento obbligatorio di cui, però, possono beneficiare solo i vivi, mai i morti.

Nesun pensiero per quei bambini che si erano appena affacciati alla vita per essere spazzati via dalla ferocia omicida di adulti che non provano pietà, ma sanno di poterla chiedere e di poterla ottenere da una società che ha smarrito il senso morale e, con esso, quello della giustizia.

E se tornasse di moda l’indignazione?

Se questo popolo trovasse la forza di scuotersi di dosso il giogo mediatico del pubblico pietismo alimentato da preti, sociologi, politici, giornalisti e tornasse ad avvertire un senso di rivolta contro chi uccide i bambini, almeno contro chi uccide i bambini?

Se chi non trova di meglio per sfogare le proprie frustrazioni che uccidere innocenti senza difesa, vedesse profilarsi nel suo futuro non l’occhio della telecamera e il microfono offerto da un compiacente giornalista per raccontare il proprio rimorso non provato né provabile, ma l’ombra di un patibolo non sarebbe il deterrente più efficace per proteggere l’infanzia?

Domande alle quali sarebbe doveroso dare risposte non demagogiche, ma pertinenti alla realtà in cui viviamo, sincere, smettendosi di fingersi moderni e quindi “civili” quasi che la modernità debba comportare l’ignominia di incrementare i delitti o l’impotenza del reprimerli.

Se le risposte fossero spontanee, noi riscopriremmo che la legge più antica è ancora oggi la più giusta: vita per vita.

Se i conclamati e proclamati, a mezzo stampa, rimorsi distruggono la vita di chi ammazza bambini, senza però mai indurli al suicidio, rimangono valide le parole con cui un pubblico ministero, negli anni Trenta, esortò la giuria popolare di una Corte di assise a condannare a morte l’autore di un parricidio:

Abbiate pietà, non lasciatelo vivere”.

Lasciamo vivere gli innocenti, non chi li uccide.

Vincenzo

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Ad offrire un modello di quello che la donna non dovrebbe essere e non dovrebbe fare, ci pensarono i radicali che portarono in Parlamento Ilona Staller, in arte “Cicciolina”.

Si obietterà che, sul piano morale, nel Parlamento italiano ci sono da sempre personaggi di gran lunga peggiori di “Cicciolina”, ma sotto il profilo educativo nei confronti dei minori italiani l’esaltazione di una prostituta che campa vendendo il suo corpo al miglior offerente non ci è mai sembrato un esempio condivisibile.

Le minorenni italiane alle quali è stato spiegato come in fondo l’antico mestiere della prostituzione è alla pari con qualsiasi altro, anzi può servire da trampolino da lancio perfino per entrare in Parlamento, inoltre rende famose e ricercate da giornali e televisione non ne hanno tratto grande vantaggio.

Eppure, in nome della libertà sessuale, la televisione italiana ha condotto una campagna sfrenataper valorizzare le pornostar, fino ad arrivare alla beatificazione di Moana Pozzi, morta ancora giovane e bella, trasformandola nell’idolo dolente di una categoria che la decenza e la morale chiederebbero che restasse confinata nel-1’ombra.

Rotto il tabù della prostituzione come mestiere non consigliabile alle minorenni italiane, la politica italiana ha ritenuto opportuno infrangere un secondo tabù, quello dell’omosessualità che, in maggioranza, coinvolge i maschi, o presunti tali, in modo da applicare la par condicio fra i due sessi.

Dopo Cicciolina, è entrato pertanto in Parlamento Vladimiro Guadagno, in arte Vladimir Luxuria, al quale piace sentirsi e vestirsi da donna.

Manco a dirlo, pure Luxuria ha confidato ai giornalisti di essersi prostituito (usiamo il maschile perché per noi è maschio) per un anno alla modica tariffa di 50 mila lire a cliente.

Non sappiamo cosa direbbe Dante Aligheri oggi, visto che ai suoi tempi già inveiva contro l’Italia non “donna di province ma bordello”, ma certo, ancora una volta, non ci è parso che l’esempio di Luxuria fosse meritevole di essere proposto ai minori italiani.

Non c’è solo lui, perché quotidianamente, a tutte le ore,la televisione italiana propone la presenza e le ciarle di omosessuali e transessuali, vestiti o meno da femmina, che si propongono come modello da seguire, che reclamano diritti e difesa della loro categoria.

Per chi si occupa di minori, specie di quelli in tenerissima età, crediamo che sia alquanto imbarazzante trovare le parole adatte per spiegare ai giovanissimi teleutenti se Platinette è maschio o è femmina o è qualcosa che è una via di mezzo.

Perché i bambini guardano e chiedono. Siamo sempre stati convinti che la difesa dell’integrità dei costumi sia doverosa, specie dinanzi agli occhi dei bambini, che, a nostro avviso, hanno il diritto di avere uno sviluppo sessuale normale, quello che conduce all’attrazione fra i due sessi, maschile e femminile.

Riteniamo che sia un diritto dei bambini crescere secondo natura, senza essere bersagliati da una propaganda che li vuole convincere che è normale accoppiarsi fra maschi o fra femmine, anche perché i bambini non hanno alcuna difesa da opporre a questa offerta di più sessualità.

Non sanno ancora cosa voglia dire amare una donna, figurarsi cosa possono conoscere sugli amori omosessuali maschili e femminili.

E’ una constatazione semplice, alla portata di tutti, come lo è la conseguente considerazione se sia giusto imporre loro la figura dell’omosessuale come esempio da seguire.

I risultati di questa propaganda sulla libertà sessuale, iniziata sul finire degli anni Sessanta e proseguita in maniera sempre più ossessiva ed assillante, li conosciamo visto che oggi si è posto il problema di convincere le dodicenni ad avere rapporti “protetti”.

Ancora qualche anno di “Ciccioline” e “Luxuria” e ascolteremo la proposta di distribuire profilattici nelle scuole elementari e negli asili.

Forse, è giunto il momento di ricordarsi che la difesa dell’infanzia non è solo quella di garantire un pasto ai bambini, un vestito, una casa, l’asilo, l’assenza di violenze fisiche, ma è anche quella di non sottoporli ad un bombardamento di immagini e di parole che violentano la loro sessualità, per determinare le inclinazioni.

Magari, si può iniziare a confinare negli orari serali, nella cosiddetta “fascia protetta” immagini e presenze imbarazzanti per il vestire, il linguaggio, le opinioni che esprimono in modo che non possano influenzare quell’infanzia che tutti a parole vogliono tutelare, ma che viceversa è massacrata quotidianamente da quanti si ritengono in diritto di propagandare se stessi come omosessuali e transessuali.

La proposta non è contro gli omosessuali e i transessuali ma a favore dell’infanzia che non ha gli strumenti per giudicare ciò che vede e sente e che, per questa ragione dovrebbe vedere e sentire ciò che rientra nella sua normalità di bambini e bambine che hanno un maschio per padre e una femmina per madre, che quando chiamano “papà” arriva un uomo, e “mamma” arriva una donna, senza possibilità di equivoci.

La lobby omosessuale può strepitare quanto vuole ma nessuno ci potrà convincere che si può spiegare a bambini e bambine dai tre ai sette-otto anni, se non di più, perchè Wladimiro Guadagno vada in giro vestito da donna e si faccia chiamare Wladimir Luxuria, con la pretesa che riescano a comprendere le differenti forme di sessualità.

Poniamoci il problema, senza timore di essere accusati falsamente di omofobia o razzismo, perché il problema esiste e non è giusto ignorarlo, non per offendere bensì per difendere il bene più prezioso che ha un popolo, la sua infanzia, l’innocenza della sua infanzia che ha il diritto di vedere fino ad una certa età il mondo in modo lineare non contorto, semplice non confuso, perché i messaggi che la mente dei bambini recepisce sono lineari, privi di ambiguità, chiari e non oscuri.

Solo cosi, si potrà metterli in condizione di scegliere, quando avranno l’età per comprendere, che cosa essere e quali vie seguire.

Chiediamo semplicemente che i nostri bambini crescano senza condizionamenti di sorta.

O, forse, è proprio questo che certe lobby temono? Essere privati del palcoscenico nel quale esibirsi, non poter pre-determinare il futuro dei bambini e degli adolescenti, non poter influenzare la loro sessualità.

Se così fosse, ricordiamoci che ancora esistono norme penali che puniscono la corruzione dei minori di anni 14.

Vincenzo

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Lettera

Milano, 11 febbraio 2010

Gentilissima Francesca,
Le chiedo ospitalità sul Suo bellissimo blog per dare spazio al pensiero di un uomo che segue, in modo costante e con estremo interesse, il dibattito sul mondo dell’infanzia che appare sempre più al centro dell’attenzione e, paradossalmente, sempre più lontano dalla realtà in cui l’infanzia dovrebbe far valere i suoi diritti.
Inizio da una constatazione: in Italia, come nel resto dell’Europa, l’attenzione verso l’infanzia si accompagna al processo d’ invecchiamento graduale e progressivo della popolazione.
E’, questo interesse, la conseguenza di un sempre minor numero di bambini nel nostro Paese e in quelli europei in genere.
Si è scoperto l’esistenza di un patrimonio da tutelare e da difendere, ma nessuno fino ad oggi, a livello politico, è riuscito da dire esattamente da cosa bisogna proteggere l’infanzia, come farlo e quali mezzi adottare.
Sarà una mia impressione, ma credo che in questo disorientato e confuso mondo attuale, si è fatto ogni cosa per distruggere la famiglia tradizionale, quella che un tempo suddivideva i ruoli fra gli uomini che avevano il dovere di lavorare e mantenere in maniera decorosa la moglie e i figli, e le donne che avevano il diritto di essere madri e di dedicarsi ai figli.
Oggi, dopo decenni di assillante propaganda, si è imposto il concetto della parità dei doveri fra uomo e donna anche in seno alla famiglia. La donna vuole, quindi, avere la. sua vita, i suoi piaceri, la sua carriera professionale, la, sue gratificazione sociali e ritiene il ruolo esclusivo di madre limitativo per la sua personalità e per la sua realizzazione.
Le donne in carriera, le attrici, le manager, le miliardarie che la televisione ci mostra come mamme tenerissime, hanno in realtà baby-sitter e “tate” che si occupano dei loro figli, per la cui educazione hanno lo scarso tempo che il lavoro loro lascia.
Le donne comuni, quelle che vivono di stipendio, devono invece scegliere se avere figli, quando averli, quanti averne perché non potendo pagare baby-sitter e “tate” devono essere loro a provvedere ai bisogni dei bambini che mettono al mondo.
Manco a dirlo, hanno spiegato alle donne che prima di avere figli è giusto che si godano la loro giovinezza, che i sacrifici per la famiglia devono essere equamente divisi fra marito e moglie, che la responsabilità dell’educazione ricade su entrambi, cosi come quella del loro mantenimento.
Mi chiedo, a questo punto, se qualcuno ha preso più in considerazione il fatto che i bambini, almeno fino ad una certa età, hanno bisogno di quell’amore che solo la madre riesce ad esprimere in senso totale e compiuto.
L’uomo,per quanto affetto riservi ai suoi figli, non potrà mai sostituire la madre nel dare quella tenerezza che i bambini necessitano, perché il “mammo” non esiste e non potrà essere creato dalla televisione e dall’onnipotente potere mediatico.
Solo fra le braccia della madre un bambino di un anno, due, magari tre, si sente confortato e rassicurato perché essa rappresenta per lui la dolcezza di cui ha bisogno.
In altre parole, come si pretende di tutelare l’infanzia dopo aver progressivamente abolito il ruolo della madre, averne sminuita la figura, facendola apparire come una professione senza retribuzione?
Cosa possono necessitare i bambini se non l’amore di una madre? Amore che si esprime con la presenza costante in casa, accanto ad essi, con la voce, le carezze , i baci, il contatto corporeo con lei.
Certo una donna soldato amerà i suoi figli come qualsiasi altra madre, ma quanto tempo potrà loro dedicare? Poco, perché torna a casa dal lavoro stanca, come chiunque lavori, e sarà così la mamma della domenica e dei giorni festivi.
Non si vuole né si può tornare indietro? Ma non si dica che si possa trovare un surrogato all’amore della madre. Si dica che si vogliono proteggere i bambini dai pericoli di un mondo sempre più imbarbarito dove gli “orchi” possono essere gli stessi genitori, ma si ammetta che che li si condanna a crescere senza affetto e tenerezza, in un mondo in cui il giocattolo costituisce il bacio che manca, la carezza che non c’è, le ore passate in braccio ad una madre assente.
La mia lettera potrà essere bollata come “qualunquista”, ma credo che esprima il pensiero di tanti della mia generazione che, in un mondo molto più povero, senza televisione e scarsi giocattoli, abbiamo però avuto la fortuna di avere un’infanzia serena, frutto della presenza dei genitori e, soprattutto, di quella donna che realizzava se stessa nell’essere madre e anteponeva l’amore per i suoi figli ad ogni interesse.
Nel ringraziarla per la cortese pubblicazione, Le porgo i miei complimenti per il Suo blog e i miei auguri per la Sua encomiabile azione a favore dell’infanzia.
Vincenzo

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Tratto da Salute.agi.it

(URL=http://salute.agi.it/primapagina/notizie/obesita39-si-combatte-dimezzando-tempo-davantinbsptv)

(AGI) – Washington, 16 dic. – Ne’ diete drastiche e ne’ intense attivita’ fisiche. Basta ridurre il tempo trascorso alla tv per sconfiggere l’epidemia di obesita’ in atto. E’ quanto emerge da uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Universita’ del Vermont (Usa) e pubblicato sulla rivista Archives of Internal Medicine. Gli adulti americani stanno in media cinque ore al giorno davanti alla televisione. Dopo il sonno e il lavoro e’ la terza attivita’ a cui si dedica piu’ tempo. Recenti studi hanno collegato il consumo di televisione all’obesita’ associata a sua volta a diabete o malattie cardiovascolari. Queste ricerche hanno anche suggerito che passare meno tempo davanti al piccolo schermo non solo incoraggia la pratica di altre attivita’ che richiedono il consumo di piu’ energie, ma serve anche a combattere l’insonnia, un disturbo anch’esso associato all’obesita’. Visto questi risultati, il team di ricercatori del Vermont, diretto da Jennifer J. Otten, ha condotto uno studio su 36 adulti, i cui indici di massa corporea variavano tra 25 e 50 (a 25 si e’ in sovrappeso, a 30 si e’ obesi e a 40 si e’ patologicamente obesi) e che hanno dichiarato di guardare la televisione una media di tre ore al giorno. Sui televisori di venti partecipanti (gruppo di intervento) e’ stato posizionato un dispositivo che dimezzava il loro “consumo” settimanale di tv. Una volta che il tempo scadeva, la tv si spegneva e non si poteva piu’ guardare. I 16 partecipanti restanti, invece, (gruppo di controllo) avevano la possibilita’ di guardare la tv come facevano di consueto. Tutti e 36 i partecipanti hanno indossato un braccialetto per misurare l’attivita’ fisica e l’assunzione di calorie, annotando in una sorta di diario il cibo che mangiavano. Nei 21 giorni di studio, i ricercatori hanno osservato che il primo gruppo d’intervento ha bruciato 119 calorie in piu’ rispetto alla fase di osservazione iniziale, perdendo circa 600 grammi di peso, mentre il gruppo di controllo ha speso solo 95 calorie rispetto alla prima parte dell’esperimento. Secondo i ricercatori, i risultati di questo studio dimostrerebbero che piccoli cambiamenti delle proprie abitudini possono fare tanto per combattere l’obesita’. .

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Tratto da LaRepubblica.it (Dal Supplemento Salute)

di Maria Novella De Luca

(URL=http://canali.kataweb.it/salute/2009/12/15/telespettatori-zero-tre-anni-cade-lultimo-tabu/)

Musica gentile, colori vivi e allegri, ritmo lento, disegni morbidi come i peluche e nessuno spot. Arrivata in Italia sui canali di Sky quattro mesi fa, “Baby tv” divide i genitori in due fazioni inconciliabili: quelli che la difendono (è uno stimolo per lo sviluppo) e quelli che accusano (manipola il cervello in un’età delicatissima). Ecco il parere degli esperti.

La grafica è curata, la musica gentile, i colori vivi e allegri come piacciono ai bambini, anzi ai neonati. Il ritmo è lento, i suoni onomatopeici, il gioco e le storie spesso interattive, i disegni hanno le morbidezze dei peluche e dei primi bambolotti che riproducono in culla lallazioni e ninne nanne. Su “BabyTv” non ci sono spot né interruzioni: i piccolissimi, è vero, saranno i consumatori di domani, ma quando si hanno da zero a tre anni la paghetta è davvero troppo lontana, i neo-genitori la pubblicità la vedono altrove, e comunque, di solito, non badano a spese. Arrivata in Italia sui canali di Sky circa quattro mesi fa, “BabyTv”, contenitore disegnato e pensato per mini-spettatori nei primi tre anni di vita e presente in 85 paesi, è diventata, pur tra le polemiche, un luogo di intrattenimento sempre più diffuso per i più piccini.
Rompendo uno dei tabù più consolidati per cui l´età della culla, dei primi passi, delle prime parole e dei primi mille giorni di esistenza, doveva essere tenuta ben lontana da stimoli eccessivi, e soprattutto lontana dal piccolo schermo. Nei forum e nei baby club on line i genitori sono drasticamente divisi in due fazioni. Gli estimatori («è uno stimolo per lo sviluppo») e i detrattori («uccide il loro cervello nella fase più fertile dell´apprendimento»).

In mezzo ci sono gli esperti dell´infanzia e delle neuroscienze, che non nascondono preoccupazione e scetticismo per questa nuova categoria di micro-spettatori destinati a diventare in pochi anni baby-teledipendenti.
«Il prodotto sembra ben fatto, di certo attira l´attenzione dei bambini, e può avere anche qualche pretesa didattica – spiega lo psicoanalista Massimo Ammaniti – ma non credo che sia salutare per i bambini di quella fascia d´età. Prima di tutto perché il gioco di mostrare immagini e figure, di scoprire colori e parole, i più piccoli l´hanno sempre fatto con i genitori, con i fratelli più grandi, o comunque con un adulto di riferimento. In un contesto relazionale quindi, utilizzando i libri, la voce, i gesti, il tatto, strumenti attraverso i quali le capacità e le curiosità dei più piccoli vengono stimolate. Di fronte alla tv, e magari da soli, l´unico canale che viene stimolato è quello visivo, il resto è passività. Senza contare che nei primi anni di vita i più piccoli spesso confondono la realtà con la finzione».
Il rischio, per il professor Ammaniti, è che una “BabyTv” di questo tipo finisca via via per sostituire il ruolo dei genitori. «I bambini crescono sperimentando, provando e riprovando. La televisione invece offre tutto pronto, già confezionato, e crea dipendenza. No, è troppo presto. Meglio i vecchi libri, le storie lette ad alta voce e le canzoni. E se proprio bisogna accendere “BabyTv” non più di cinque minuti al giorno».

Del resto se è vero, come dicono gli scienziati, che nei primi mille giorni di vita il cervello è al massimo della sua plasticità, è d´obbligo avere cautele. Come spiega infatti Piergiorgio Strata, docente di neurofisiologia al Dipartimento di neuroscienze dell´Università di Torino. «Da zero a tre anni il cervello è nella sua fase di maggiore captazione ambientale, è quella l´epoca in cui vengono lasciate tracce permanenti, e gli stimoli sono assolutamente fondamentali. Un tempo ad esempio i neonati venivano lasciati nella culla, fermi lì, magari davanti ad un muro. Poi ci si è accorti che fin dalle prime settimane i piccoli venivano attratti dai suoni, dalle luci, e adesso sulle culle si montano oggetti di tutti i tipi che catturano la loro attenzione».
«Noi sappiamo che il cervello è sempre plasmabile, risponde cioè sempre agli impulsi esterni: nei bambini naturalmente le cui potenzialità sono al massimo, ma anche nei malati di Alzheimer, che devono invece recuperare abilità e possibilità. Il vero problema – aggiunge Piergiorgio Strata – è che noi non sappiamo con certezza quali siano gli stimoli giusti e quelli sbagliati. Sembra banale ma una delle grandi sfide della scienza è quella di capire quali sono per il cervello le “informazioni” positive e quelle negative. Magari avessimo un protocollo… Sappiamo però che la tv deve essere dosata, che troppa tv è più distruttiva che istruttiva. Detto questo, la mia non è una bocciatura a tutto campo. Ci sono, a volte, tecnologie nuove che possono aiutare lo sviluppo del bambino. Anche se il “fattore umano” e cioè le informazioni che arrivano attraverso le parole, il suono, il tatto, il contatto con i genitori, restano a mio avviso gli stimoli più efficaci»..

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Tratto da il sussidiario.net

di Paola Liberace

(URL=http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=33672)

In guerra e in amore, si dice, tutto è permesso. E così, nella guerra contro il digitale terrestre e la nuova piattaforma satellitare Tivu Sat, Sky ha pensato bene di giocare il tutto per tutto, rivolgendosi per la prima volta nel nostro paese direttamente al pubblico dei giovanissimi. No, non i bambini, ma i neonati: Baby TV, il canale nato in Inghilterra nel 2005, e già diffuso in numerosi altri paesi nel mondo, si rivolge infatti agli infanti da 0 a 3 anni. La notizia non poteva che scatenare reazioni critiche da parte dei movimenti di difesa dei minori, in particolare di quelli più diffidenti verso il piccolo schermo: i bambini sotto i trentasei mesi, sostiene il Moige, rischiano sia dal punto di vista della crescita fisica sia di quella psicologica. Il timore di fondo resta quello del “parcheggio” dei più piccoli di fronte al televisore: non a caso, la difesa d’ufficio da parte di Fox, del cui bouquet Baby TV fa parte, mira a scongiurare l’obiezione sempre attuale della “baby sitter” catodica, e assicura che il nuovo canale va inteso piuttosto come una nuova occasione di interazione tra genitori e figli.

Difficile crederlo: ma non certo per via delle malefiche arti incantatorie della televisione, del suo potere ipnotico, della sua irresistibile malìa. Il pericolo, come sempre, non sta negli strumenti, ma nell’uso – o abuso – che se ne fa: e che decide del loro essere, di volta in volta, utili sostegni, svaghi innocenti, aiuti all’educazione, o puri e semplici sostituti di una funzione genitoriale assente. Così il piccolo schermo non è il primo e non sarà l’ultimo, né il più dannoso, dei “parcheggi” cui vengono ogni giorno affidati i nostri bambini, in particolare quelli sotto i trentasei mesi: alle cui esigenze specifiche, TV a parte, viene di solito dedicata un’attenzione pressoché nulla, surclassata dalle istanze della parità e della produttività. È in nome dell’una e dell’altra che i bambini oggi devono rinunciare ad essere allevati da madri e padri in questa delicata fase del loro primo sviluppo; e nell’impossibilità di trascorrere più di qualche decina di minuti al giorno con i loro genitori, sono rimbalzati da nonni a tate, da asili nido a ludoteche. Il tutto, stranamente (o forse no) senza che alcuno protesti: anzi, per lo più, nella generale invocazione affinché i cosiddetti servizi di assistenza all’infanzia amplino i loro orari e tempi di apertura, e vengano incrementati, possibilmente a spese dello Stato.

Troppo facile prendersela con la TV. Grazie anche all’impegno delle associazioni che, negli anni, hanno esercitato una costante vigilanza sul consumo di media da parte dei minori, la televisione rappresenta sempre meno uno spauracchio per i bambini: che rispetto a qualche anno fa possono ora contare su programmazioni dedicate, senza infiltrazioni di violenza dal mondo adulto e depurate di spot. Così, il nuovo canale di Sky sarà realizzato sotto la direzione di esperti e psicologi, e trasmesso completamente privo di pubblicità. Ma chi vigilerà invece su quei lattanti che, affidati a baby sitter in carne e ossa, vengono trascinati per giorni nei loro passeggini in solitarie perlustrazioni dalla tata che non rivolge loro una parola? Chi sorveglierà invece quei neonati che, iscritti pure al migliore degli asili nido, passano a sei mesi o poco più dal costante, vitale contatto con la madre a una separazione che dura otto o dieci ore al giorno, in attesa di una mezz’ora serale che, in nome del “tempo di qualità”, tenti di riscattare tanta lontananza? E a proposito di ripercussioni sulla crescita fisica e psicologica della prima infanzia, chi si preoccuperà di denunciare i documentati danni che derivano dalla separazione prolungata dei neonati dai loro genitori fin dai primi mesi di vita, divenuta ormai lo standard nella nostra civiltà efficientista, egualitarista, e profondamente sterile?

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