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Posts Tagged ‘giustizia’

Ancora una volta, si è levata accorata la voce dei genitori di Yara, questa volta rivolta contro coloro che sfruttano la memoria della figlia per vendere più copie e fare audience in televisione.
I giornalisti italiani – è noto – non conoscono la pietà e il rispetto, e la richiesta dei genitori di Yara di smettere di pubblicare e trasmettere video che ritraggono la loro bambina mentre danza felice, ne è l’ennesima dimostrazione.
Yara deve ancora trovare sepoltura, ma il silenzio dovrebbe scandire i giorni che mancano ad un funerale che ci auguriamo che l’intera comunità di Brembate voglia celebrare tenendo a distanza chi finge commozione per lo stipendio che gli nassa il giornale o il telegiornale.
Yara è lontana, in un mondo in cui nessuno potrà più farle del male, ma i suoi familiari vivono nel ricordo che le immagini di lei, danzante, sorridente, felice, rendono straziante.
Non serve un grande senso di umanità per comprendere che vedere Yara, felice, rinnova il dolore, lo rende più atroce, accresce la consapevolezza dell’assenza, del ritorno a casa che non ci sarà mai più.
I campioni dell’italico pietismo non lo comprendono, perché non sanno cosa siano la pietà e il rispetto.
Sono lì, pronti a riversare fiumi di parole sull’assassino o sugli assassini di Yara, disposti ancora ad usarla per i loro fini, per vendere la loro merce avariata calpestando il ricordo di una bambina uccisa e il dolore dei suoi familiari.
Sono molte le considerazioni amare che la morte di Yara obbliga a fare.
Da quelle relative all’incapacità di questa società a difenderla, perché priva di un deterrente efficace, a quelle dell’inidoneità degli investigatori ormai capaci di risolvere un caso solo se le telecamere riprendono la scena del crimine o se il Dna gli fornisce la soluzione, all’assenza della politica che non interviene, che si mantiene distante da una tragedia che colpisce tutta la collettività nazionale perché è la ripetizione di tante altre simili a questa, al ruolo di una Chiesa che si è ridotta a parlare solo di bontà e di perdono dimenticando che Dio, prima di ogni altra cosa, è giusto.
Le svilupperemo, una per una, perché è doveroso farlo nel rispetto dei sentimenti dei genitori e dei familiari di Yara, dai quali viene l’esempio di una dignità che sembrava perduta in questo Paese dove si va ai funerali per applaudire e mettersi in fila nella speranza di essere intervistati.
Li abbiamo ammirati per la compostezza con la quale hanno vissuto e stanno vivendo la loro tragedia, per il loro riserbo, il loro silenzio, la difesa degli altri figli mai offerti alle telecamere, il dolore immenso che non travalica le mura della loro casa.
Italiani di un’Italia che va scomparendo, ma che ancora esiste e resiste, i genitori di Yara dovrebbero essere portati ad esempio per tutti i concittadini di questo Paese dove l’ambizione più grande dei più è apparire in televisione.
Noi lo facciamo e non 1i dimenticheremo, neanche quando i riflettori di quella che ci sentiamo di definire la canea giornalistica si saranno spenti.
Non si estinguerà il nostro rispetto per loro, non si spegnerà il ricordo di Yara perché vogliamo che abbiano giustizia in un Paese che non ha più giustizia.

Vincenzo

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Lo sapevamo. L’abbiamo sempre saputo che Yara era stata uccisa, anche se non lo potevamo affermare per non turbare i genitori ed i fratelli che, certamente, non volevano perdere la speranza di rivederla.
Nessuno può sequestrare una bambina di 13 anni, a prescindere dal fine che lo anima, e poi lasciarla in vita, con la ovvia certezza che lo potrà identificare, se già la bambina non lo conosce.
Ora, Yara è morta. Ed è iniziato lo spettacolo indegno, indecoroso ed indecente di quanti già invocano il perdono per il suo uccisore. Dal prete del paese che, sotto l’occhio delle telecamere, ricorda che contro la cattiveria bisogna lottare con la bontà, allo scrittore che ipotizza che l’assassino di Yara ha conservato il suo telefono cellulare come muta richiesta di aiuto, al padre di un bambino ucciso da Luigi Chiatti che dichiara di averlo perdonato, è partita la gazzarra per presentare l’omicida come un “malato” che, ovviamente, avrà bisogno di cure, al quale bisognerà dare il tempo di pentirsi e di ravvedersi con una pena che gli dia la possibilità di essere recuperato alla società, sempre che non lo si riconosca infermo o semi-infermo di mente.
Non sanno ancora chi sia stato a togliere con una ferocia inaudita la vita a Yara, ma temono l’emozione che il suo omicidio ha provocato e corrono, preventivamente, ai ripari.
Il prete paragona Yara a Santa Maria Goretti perché, ovviamente, una santa non può che perdonare, ma non è elevando Yara agli altari che si cancella l’orrore.
Yara era come appare: una bambina sana, forte, piena di vita e di gioia di vivere, che si è difesa con tutte le forze non per proteggere la sua castità ma la sua vita. Perché la bambina in quei lunghi, interminabili minuti di terrore ha compreso che stava per morire e ha lottato come può farlo una della sua età, con le sue forze non paragonabili a quelle del suo assassino.
Fra i tanti ciarlatani che ogni giorno imperversano in televisio ne per parlare dell’omicidio di Yara, che hanno perfino osato criticare i genitori per aver chiesto il silenzio stampa, non uno ha ricordato l’agonia di Yara, la sua paura, la sua disperazione mentre sentiva che la vita le sfuggiva.
Non uno di questi cialtroni ha posto l’accento sulla lenta agonia della bambina alla quale nulla è stato risparmiato, obbligandola a vivere la sua morte.
Neanche un estremo gesto di pietà, quello di ucciderla senza farla soffrire.
Ora, dinanzi alla possibilità dell’arresto e della condanna del suo uccisore, si cercano già le attenuanti, le giustificazioni ed il perdono da imporre ai genitori di Yara.
Fermo restando il rispetto per ogni decisione immediata e futu ra dei genitori di Yara, noi ci auguriamo che chiedano solo giustizia, quella vera che esclude attenuanti, sconti di pena, benefici di legge in cambio di ravvedimenti parolai e indimostrabili.
Sarà sempre una giustizia dimezzata, perché chi ha commesso il delitto con lucidità, consapevolezza, astuzia non meriterebbe di vivere se non nel terrore, tipico degli infami, di vedersi approssimare l’ora di salire sul patibolo.
Ma questa è la sola giustizia possibile in questo Paese in cui ha valore solo la vita dei colpevoli, mai quella degli innocenti di cui nessuno difende la sacralità, in nome di una civiltà che, viceversa, è barbarie.
L’assassino di Yara, se e quando arrestato e condannato, potrà fa re i calcoli degli sconti di pena che gli spettano per la “buona condotta” carceraria, le date in cui potrà chiedere i “permessi premiali”, le interviste che concederà per dire che non dorme più la notte per il rimorso, il rosario da mettersi attorno al collo per esibirlo alle telecamere, e via via tutto lo squallore di uno spettacolo che conosciamo da decenni, sempre disgustoso, sempre più intollerabile.
Almeno per Yara, per questa bambina che sognava una vita felice, che esprimeva la sua gioia e la sua vitalità nella danza artistica, per quel suo sorriso sbarazzino, risparmiamoci lo spettacolo miserabile della pietà per il suo assassino.
Per Yara, pretendiamo solo giustizia.

Vincenzo

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La fotografia di Yara ci riporta l’immagine di una bambina dal sorriso sbarazzino, dinanzi al quale avventiamo il senso dell’impotenza totale.

L’appello dei genitori di Yara, inutilmente rivolto al senso di pietà di quanti hanno strappato la figlia, al loro affetto, accresce il senso di sgomento e di furore nei confronti di quanti da mezzo secolo a questa parte hanno callidamente preferito schierarsi dalla parte dei carnefici contro, le vittime.

Cosa, dire ai disperati genitori di Yara? Parole di inutile conforto, preghiere che non hanno senso, fiaccolate che dimostrano la solidarietà dei paesani, ipocriti servizi televisivi che fanno da palcoscenico a giornalisti cinici ed esperti in cerca di pubblicità per parlare di un dolore che non provano e di un senso di pietà che non hanno.

Da un lato il sorriso di Yara, dall’altro il servizio su Vallanzasca, l’appello dei genitori di Yara e la reiterazione de “Il Padrino”, il dolore e i detenuti che mangiano a Natale insieme ai frati e ai preti della Comunità di Sant’ Egidio.

Il bene e il male posti sullo stesso piano, vittime e carnefici da compatire entrambi, fra le notizie sul millesimo amore della velina di turno il matrimonio del principe di Galles.

Se mai il cuore ci avesse suggerito di indirizzare uno scritto ai genitori di Yara, non troviamo le parole per dire quello che si prova dinanzi ad un dramma che, quando concluso, se concluso, passerà come sono passati tutti gli altri ai quali abbiamo assistito in tanti anni.

Non si perdere la speranza che Yara possa tornare, ma questo non attenua la rabbia per aver permesso che qualcuno l’abbia portata via, l’abbia strappata al suo mondo, ai suoi affetti, le abbia fatto conoscere, nel modo peggiore, il peggio del mondo e degli uomini.

Dinanzi al dolore composto e dignitoso dei genitori di Yara, tale da imporre rispetto perfino ai giornalisti italiani che hanno, per una volta, accantonato la loro leggendaria volgarità e scompostezza, si può solo partecipare nel silenzio solidale di chi chiede, con forza, alla gente di scuotersi, di liberarsi di tutto il ciarpame che ne ha oscurata la coscienza, per dire che Yara sia la fine e 1’inizio.

La fine del tempo del pietismo d’accatto verso i criminali, l’inizio della ricostruzione di un mondo più giusto, dove la difesa e la protezione degli innocenti siano considerate prioritarie rispetto ai diritti di chi, per sua scelta e per sua infamia, si è posto al di fuori del genere umano.

Perché la ferocia e la crudeltà non hanno sempre e soltanto spiegazioni psicoanalitiche, non scaturiscono da ricordi d’infanzia maltrattata, dalla nonna ubriacona, dalla madre infedele, dal padre zotico e manesco, ma hanno le loro radici e la loro spiegazione nella

natura umana, dove luce e tenebre convivono e si combattono, dove
troppo spesso per la viltà dei tempi le seconde finiscono per prevalere sulla prima.

E mentre si preparano i cenoni e i balli e le feste di Capodanno, il sorriso di Yara suscita angoscia per la sua sorte e c’induce a chiederci quanti altri lupi, in veste di uomini, dobbiamo far vivere e proteggere perché possano fare del male a mille e mille altre Yara?

Se mai avessimo potuto scrivere ai genitori parole di speranza e di conforto e, insieme, dare loro certezza di giustizia, lo avremmo fatto.

La speranza sul ritorno di Yara rimane, la certezza della giustizia non c’è, anzi è cancellata dai codici e degli animi.

E allora è più giusto il silenzio nella trepida attesa, facendo nostro il tormento dei genitori, di quanti hanno ancora un cuore, un animo ed una coscienza.

Vincenzo

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Finisce l’anno 2010, ed è tempo di bilanci: morti per droga, per incidenti stradali dovuti all’ubriachezza ed alla droga; donne uccise; ammazzati dalla malavita; bambini scomparsi; numero dei reati; arrestati, detenuti, assolti, prosciolti ecc.

Una marea di cifre per nascondere la realtà di una società che si avvia alla dissoluzione, incapace di difendere sé stessa ed i suoi componenti, in particolare i più fragili, i più indifesi, i suoi figli.

Quante Sara abbiamo visto comparire sui teleschermi e poi scomparire per sempre dalla vista e dalla memoria in questi anni?

Quante Yara abbiamo visto cercare e trovare spazio sulle pagine dei giornali e in televisione fino al momento in cui qualche altro evento, più succulento dal punto di vista dell’audience e della vendita di copie non le ha fatte cadere nel dimenticatoio?

Tante, insieme ai Tommy, ai piccolissimi di cui nessuno ricorda più né il volto né il nome.

E’ una società che si è assuefatta al male, che accetta tutto con rassegnazione, se non con indifferenza.

Ci propongono, per combattere la mafia, “Il padrino”, “Il capo dei capi”, “L’onore e il rispetto”, tutti films e sceneggiati apologetici che presentano mafiosi come non ne sono mai esistiti, con regole di un onore che non hanno mai avuto, con una dignità che non sanno nemmeno cosa sia, per alimentare leggende di cui la storia e la verità hanno giustizia da tempo.

Ci proiettano films su malavitosi da trivio e d’ accatto, come quelli della banda della Magliana e Renato Vallanzasca, spacciati per “fiori del male”, invece che presentati per i topi di fogna che sono stati.

Fanno sfilare in televisione finti ravveduti e pentiti, perché dicano ai loro simili che non si devono preoccupare, che possono fare quello che desiderano, tanto poi il carcere li recupera, li rieduca e gli consente di rifarsi una vita e, spesso, anche i reati.

E’ un continuo susseguirsi di immagini, di interviste, di storie che si abbattono su una popolazione indifesa che non comprende a chi interessi la storia d’amore di Renato Vallanzasca, periodicamente riproposta per motivi oscuri e certamente abietti, cosi la lieta novella del fidanzamento di Marco Furlan, che ha scontato 17 anni di carcere per quindici omicidi mancando per un soffio l’ obiettivo di incendiare una discoteca nella quale avrebbero potuto trovare la morte qualche centinaio di giovani, per tacere della nuova vita di Pietro Maso, massacratore di padre e madre per impadronirsi dell’eredità.

Questo è il mondo in cui fanno vivere una generazione che si affaccia ora alla vita, insegnando che il male non esiste, sostituito dallo “sbaglio” che si può e si deve rimediare con la rieducazione, ma dove non esiste nemmeno il bene perché tutti gli uomini sbagliano e nessuno ha, quindi, il diritto di ergersi a giudice degli altri e tantomeno di condannare.

Un mondo senza luce, dove un’ oscurità perenne rende tutti egualmente peccatori, un

purgatorio perenne dove però sono chiamati ad espiare solo i deboli e gli innocenti.

L’inferno non esiste più. La Chiesa lo ha dichiarato uno stato d’animo, intriso di tristezza perché l’anima è lontana da Dio, ma senza sofferenze per carità, ma quale espiazione, suvvia, un giorno Dio perdonerà tutti, anche i più incalliti fra i peccatori.

Cosi, un poco al giorno, lentamente, il veleno è stato iniettato in una società chiamata a condannare chi condanna, a punire chi punisce, perché la giustizia “giusta” è quella che assolve o, comunque, è clemente; e civile è quello Stato che non condanna a morte chi magari, ha ucciso decine di persone dopo averle atrocemente seviziate, ma lo rieduca, con il lavoro in carcere, il televisore a colori, il permesso premiale, la semi-libertà , ecc. ; buono è il padre che parla da amico con i figli e, magari, si droga con loro o lascia la camera da letto a disposizione delle figlia che deve fare le sue esperienze e vivere i suoi amori giovanili.

Una sovversione totale, capillare, di tutti i valori e di tutte le regole per distruggere una società senza avere un modello per ricostruirla.

Il primo passo è compiuto: questa non è più una società civile, è un insieme smarrito di uomini e di donne che vivono senza certezze, che si nutrono solo di dubbi, che procedono fra i “ma” e i “se” di chi non è più in grado di affermare anche una sola verità, la più elementare,che può darsi che sia sbagliata, anch’essa, come tutto il resto.

E Yara e le altre? Fanno audience,le interviste televisive, la predica del prete, le veglie di preghiera, i commenti degli esperti di turno, capaci di incolpare loro, Yara e le altre, per aver dato fiducia a chi non la meritava, per non essere state sufficientemente accorte, perché non c’è un limite alla decenza.

Così come quando si giunge alla domanda: come le difendiamo? Ecco tutti arrampicarsi sugli specchi del non dire, dell’ attendere che lo dica un altro, per trovarsi infine tutti d’accordo sul fatto che bisogna varare una campagna pubblicitaria per indurre Yara e le altre a non fidarsi di nessuno, nemmeno di mamma e papà.

Nessuno, però, ha ancora proposto di lanciare una campagna pubblicitaria diretta ai mostri (senza virgolette) per indurli a rispettare Yara, le altre, gli innocenti.

Sanno che è inutile, ma in fondo non gli interessa a politici, giornalisti ed esperti di Yara e le altre.

Non hanno avuto la faccia tosta di far sapere alla mamma di Sara Scazzi che i carabinieri stavano cercando il cadavere della figlia in diretta tv dalla casa di chi l’aveva uccisa?

Poi, si sono autocommiserati e hanno dibattuto se la televisione deve porsi dei limiti oppure no.

Quante volte abbiamo ascoltato attoniti i giornalisti che chiedevano a padri e a madri, straziati dal dolore, “cosa prova in questo momenti?”, “è disposto a perdonare?”.

Abbiamo atteso invano un gesto liberatorio, certo violento ma non eccessivo, come quello di infilare il microfono in bocca all’intervistatore, spulandogli in un occhio, ma persone schiantate dal dolore non si sanno difendere.

Forse sarebbe giusto che altri prendessero a pedate questi giornalisti ai quali, dopo, chiedere “cosa prova adesso?”, “è disposto a perdonare?”.

Le conseguenze non consigliano di procedere con metodi cosi diretti, perché si scatenerebbe la campagna per la difesa della libertà di informazione con la richiesta di pene severissime per quanti la insidiano.

Perché, gli italici giornalisti alla ricerca disperata di chi è disposto a perdonare chi gli ha ammazzato un figlio o una figlia, i calci in culo non li perdonerebbero di certo.

E Yara e le altre?

Tutti nella nostra coscienza sappiamo come vanno difese, protette e, se del caso, vendicate. Perché la giustizia è anche la vendetta di una società giusta che la racchiude in una parola sola: morte.

Vincenzo

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Nel breve volgere di una settimana si sono svolte due manifestazioni che hanno avuto entrambe lo scopo di contrastare la violenza e la morte.

E’ stata celebrata, da un lato, la Giornata contro la violenza sulle donne e, dall’altro, la Giornata contro la pena di morte indetta, quest’ultima, dalla Comunità di Sant’Egidio.

A levare la loro voce contro questa e quella, la violenza sulle donne e la pena di morte, sono stati gli stessi personaggi che si rappresentano, in questa maniera, come gli alfieri ed i difensori della civiltà odierna.

I telegiornali hanno snocciolato le cifre della violenza contro le donne, impressionanti per qualità e quantità, fra i quali spicca quello riferito alle donne uccise in 11 mesi: 115.

Centoquindici vite spezzate per sempre da mariti, fidanzati, conviventi, violentatori, bulli, rapinatori ecc. ecc.

Centoquindici assassini per i quali, quando arrestati, si è già messo in moto il meccanismo giudiziario e penitenziario che deve assicurare, il primo, una pena che dia a costoro la possibilità di essere reintegrati, in futuro, nella società, garantita dal secondo che assicura una rieducazione presunta ed un ravvedimento provato solo dalle parole e mai dai fatti.

Nel momento in cui centoquindici bare venivano calate nelle fossa, lo Stato volgeva il capo verso gli assassini e li rassicurava sulla loro possibilità di rifarsi una vita, di uscire dal carcere per coltivare i rapporti affettivi, di trovare magari un’altra donna che potrà consolarli per gli anni di carcere che, comunque, saranno costretti a fare.

E’ la logica del perdonismo esasperato, dell’indulgenza ad ogni costo, portata avanti da quanti hanno identificato la civiltà e la modernità con l’ impotenza dello Stato e della società dinanzi a quanti si ritengono in diritto di compiere crimini, anche i più atroci, salvo invocare il loro diritto alla vita e alla libertà.

Le classi dirigenti, oggi, hanno un solo impegno cancellare la parola giustizia per sostituirla con quelle di “clemenza”, “perdono”, “rieducazione”, nel tentativo di convincere il popolo che la sola giustizia è quella buona, che assolve, che condanna a pene miti, che comprende le ragioni degli assassini e salvaguarda i loro diritti, primi quello alla vita e alla libertà.

La lotta contro la pena di morte, vista come espressione di inciviltà e di barbarie, si propone esattamente questo obiettivo, quello di poter dire a chiunque che può delinquere, che può uccidere con la consapevolezza che lo Stato saprà comprendere ed aiutarli a riconoscere il loro errore perché possano tornare liberi e mondi dal peccato in una società attonita ma impotente.

In tutto questo manca qualcosa di sostanziale, quel senso di giustizia che ha accompagnato per millenni gli uomini di tutte le razze e che da mezzo secolo, si cerca, in tutti i modi, di cancellare.

Tutte le pene hanno una funzione preventiva e repressiva insieme, perché si rivolgono agli uomini per ammonirli e dissuaderli dal compiere reati che, quando commessi, trovano la loro sanzione certa, sicura, implacabile.

Lo Stato si rivolgeva agli uomini anche per dire che, ove non fosse stata sufficiente l’educazione, la religione, la morale, interveniva la giustizia che, provata la colpa, procedeva con massima severità nei confronti dei colpevoli.

Lo Stato s’imponeva, dunque, il compito di disarmare la mano di quanti, per motivi quasi sempre futili se non abietti, potessero sentirsi autorizzati ad uccidere innocenti.

Oggi, le classi dirigenti ritengono che non la mano degli uomini ma quella dello Stato che, nelle sue funzioni ha quella di proteggere la vita ed i beni dei cittadini, deve essere disarmata.

E’ lo Stato che sale sul banco degli imputati in veste di criminale perché non si può togliere la vita ad uomo, in quanto la vita è sacra, ecc. ecc.

Il rispetto per la vita, la persona e i beni altrui s’insegna, nelle famiglie, poi nelle scuole, fa parte integrante dell’educazione e della formazioni civica di ogni cittadino.

Ogni Stato che si rispetti svolge questa attività educativa alla quale, segue, necessariamente, una di carattere repressivo quando la prima si è rivelata inefficace per quanti ritengono di essere in diritto di infrangere le regole della civile convivenza.

La pretesa di dichiarare criminale lo Stato che punisce e considerare un “bravo ragazzo” che ha “sbagliato” chi commette reati che giungono fino all’omicidio, può appartenere solo a coloro che vogliono distruggerla società, non edificarne una nuova e migliore.

La pena di morte, come ogni altra pena, ha un valore dissuasivo meno per una minoranza di uomini che sono fisiologicamente portati al crimine.

Ma, se l’ombra del patibolo non costituisse un deterrente efficace, la pena di morte rappresenterebbe un atto di giustizia, vera, autentica, quella che non ritiene che un omicida di bambini debba sopravvivere ai piccoli innocenti che ha massacrato, semplicemente perché la sua vita non ha più ragione d’essere.

Non è tollerabile che, da un lato, si pianga su centoquindici bare fingendo di non sapere che molte fra queste sarebbero rimaste vuote se gli assassini fossero stati consapevoli di andare incontro, per il loro crimine, a sanzioni estreme.

Non si può prevenire la violenza contro le donne stampando una guida che insegni a queste ultime come riconoscere a tempo le intenzioni dei loro aggressori e dei loro uccisori.

Perché questa è la risposta dello Stato, questo lo scudo che dovrebbe proteggere le donne dalla violenza e dalla morte.

Se stare dalla parte degli innocenti è barbarie, se ritenere che la vita di donne, bambini, innocenti abbia valore e quella dei loro assassini no, allora è onorevole dichiararsi barbari, scegliendo di stare dalla parte dei giusti e della giustizia.

Vincenzo

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La commissione di reati in questo Paese suscita ancora indignazione?

La vicenda, ultima in ordine di tempo, di Ruby,la bella marocchina che ha messo nei guai il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, sembra provare il contrario.

Del diluvio di commenti seguiti alla telefonata di Berlusconi per farla rilasciare dalla Questura, non uno è stato dedicato al fatto che Ruby è una ladra.

Già, perché la ragazza è stata denunciata da un’amica che la ospitava per averle rubato 3 mila euro.

A Ruby, mancavano 3 giorni per diventare maggiorenne, quindi non si può invocare per lei l’incapacità di intendere e di volere; non pativa la fame, quindi non ha rubato per

comprarsi un tozzo di pane o trovare un misero alloggio dove abitare e ripararsi dal freddo.

Poco interessa sapere perché Ruby abbia rubato, ma conta notare come si presenti in discoteca con ampie scollature e vestiti firmati con generoso spacco laterale, per farvi la reginetta di chi e di cosa non si comprende.

O meglio si comprende perfettamente che Ruby sul furto e su quanto altro ne è seguito, ha compreso che può farci carriera e divenire famosa.

Ruby è precoce, quindi, ha ben compreso la differenza che passa fra la barbarie islamica che il furto lo punisce ancora, e la civiltà cristiana dove il ladrocinio è lo sport nazionale e, spesso, serve per farsi notare ed ammirare.

Finiti i tempi oscuri in cui chi rubava, una volta scoperto, si vergognava circondato dalla riprovazione sociale, oggi una come Ruby se ne può vantare, sicura di non andare incontro a critiche e a sanzioni penali.

Figurarsi, in un Paese in cui i minori di anni 18 possono ammazza re e stuprare senza farsi un giorno di galera perché vengono subito posti alla messe in prova in una comunità dove hanno il solo compito di svolgere lavori leggeri (per carità, leggeri), cosa faranno mai a Ruby per aver rubato solo tremila miseri euro? Le vieteranno per tre giorni di andare in discoteca.

E’ anche giusto così. I condannati per mafia sono senatori, gli inquisiti per camorra sottosegretari, gli imputati per corruzione presidenti del Consiglio, i prostituti deputati, le prostitute sono contese nelle trasmissioni televisive, non si può infierire su una piccola ladra.

Si parla sempre del malessere italiano, sul piano sociale e politico, ma nessuno riesce ad individuarlo nello smarrimento del senso morale.

Come potrà mai risollevarsi un paese quando ad un topo di fogna, Renato Vallanzasca, si fa un film dal romantico titolo de “Il fiore del male”, ci si vanta in televisione delle scarcerazioni di Pietro Maso che ha ammazzato padre e madre, di Marco Furlan che è stato il primo serial killer italiano con 15 morti ammazzati e ha fatto in tutto 17 anni di galera?

Pochi esempi sui tantissimi che se ne potrebbero portare, per di re che, lentamente, un poco alla volta, si convincono gli italiani che il male non esiste, sostituito dall’ “errore” che tutti possono commettere e che, per questa ragione, deve essere compreso e sanzionato in modo ragionevole perché chi lo commette deve avere la seconda opportunità e rientrare nella società civile dove potrà rifarsi una vita.

Come si fa a negare a uno come Furlan che ha fatto 15 omicidi la possibilità di uscire dal carcere, trovarsi un lavoro, fidanzarsi e godersi la vita e la fidanzata?

Mica siamo barbari!

Se questo è il giusto trattamento di un serial killer, possiamo la sciare in libertà, anzi in Parlamento, chi intrallazza con mafia, camorra e n’drangheta, mandare a piede libero chi ammazza con la macchina perché ubriaco e drogato, e così via rapinando, ammazzando, stuprando, spacciando e rubando.

La marocchina Ruby ha compreso come vanno le cose in Italia, quindi c’è da esserle grati se ha scelto, per diventare famosa, di fare solo un modesto furto invece di ammazzare qualcuno, tanto per lei sarebbe cambiato poco o niente.

Un dirigente iraniano, commentando la difesa di Sakineh, la donna condannata a morte per aver ucciso il marito in concorso con due amanti, da parte del governo italiano, ha commentato: “Noi siamo dalla parte delle vittime, voi da quella dei killer”.

Difficile dargli torto, anzi impossibile se pensiamo che Valerio Fioravanti e Francesca Mambro con 96 morti ammazzati sulla coscienza hanno fatto meno di venti anni di carcere e sono in prima linea per l’abolizione della pena di morte nel mondo.

Certo, i loro appelli non li possono sottoscrivere i 96 italiani, uomini, donne e bambini, che loro hanno ucciso, ma questo è dettaglio che non interessa a politici e giornalisti.

Il male italiano è, principalmente, in questo svanire del senso morale che si traduce, in pratica, nel venire meno del senso di giustizia e di equità.

Dare ad ognuno il suo, in questa Italia, significa fare il funerale a chi è stato ucciso e dare il permesso premio a chi l’ha ammazzato.

E’ il caso di rivedere i meccanismi, di correggere la rotta, di dare a chi merita e di togliere a chi demerita, di incoraggiare gli onesti e di punire i disonesti, di riscoprire cioè che esiste una linea divisoria che separa nettamente il bene dal male sia nella coscienza degli uomini che nella società.

E’ venuto il momento di riscoprire il valore di una parola affascinante e terribile: Giustizia.

Vincenzo

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Gentilissima Francesca, ritengo che un sito come il Suo che si occupa dell’infanzia e, in maniera specifica, del problema irrisol to degli asili nido in Italia e di quelli – tanti – ad esso connessi, possa anche ospitare riflessioni relative alla barbarie di cui sono sono vittime tanti bambini italiani che nessuno, in realtà, protegge nonostante i continui proclami che,dal mondo della politica e da fantomatiche associazioni che si occupano dei bambini e dei ragazzi in generale, affermano il contrario.
Lo spunto mi viene dato dalla morte di Alessandro, 8 mesi, ucci so in maniera atroce dal compagno di una donna troppo drogata in quelle ore terribili per rendersi conto di quanto stava accadendo a suo figlio.
Poco spazio è stato dedicato a questo episodio che ora si tenterà di spacciare come frutto di una follia temporanea derivante da un uso eccessivo di cocaina da parte di un uomo, per il quale è già stata puntualmente richiesta la perizia psichiatrica. Un modo come un altro per infliggergli una condanna mite rispetto alla straordinaria gravità di quanto ha compiuto.
Cronache distratte perchè per una madre, drogata e senza soldi, priva di amicizie potenti e parentele che contano nel mondo della politica, il meccanismo mediatico della pietà non si è mosso, benché l’innocenza della donna, sia provata dalla sua scarcerazione.
La mente corre all’ossessiva, asfissiante campagna di stampa per affermare, ad ogni costo, l’innocenza di Anna Maria Franzoni che, invece, suo figlio lo aveva ammazzato proprio lei.
Ma non è della madre e delle madri che intendo che bisogna oggi parlare, quanto dei bambini tanto più piccoli quanto più indifesi, chiedendoci se veramente in questo nostro Paese ci sia qualcuno ancora disposto a scendere per difenderli e proteggerli da un mondo sempre più crudele e feroce.
Non è concepibile che un uomo possa torturare ed uccidere un bambino di otto mesi, che possa reggere il suo sguardo, che possa farlo gridare dal dolore, che possa ammazzarlo senza alcuna pietà, co me altri già prima di lui perchè -ed è questo che fa inorridire- non è più un caso eccezionale, tanto che non fa notizia.
Stampa e televisione che hanno dedicato molto più spazio agli amori e agli amorazzi di questo e quel Vip, hanno abituato gli italiani all’orrore.
Si dà spazio alle proposte idiote di vietare le sculacciate, inun Paese in cui se il padre molla una sberla al figlio teppista finisce lui in galera, non il figlio, per dare ad intendere che esiste la difesa dell’infanzia e dell’adolescenza.
Poi, si tace sull’orrore dell’omicidio di Alessandro.
Vogliamo andare controcorrente, vogliamo quindi porre dalle pagine del Suo sito se veramente dinanzi alla consuetudine di sopprimere bambini che è ormai tipica di questa società, almeno in questo caso non si vogliano difendere il loro diritto alla vita e alla serenità dell’infanzia.
In un Paese in cui si è imposto il rispetto dei diritti umani solo per coloro che li violano nella maniera più barbara ed atroce, perchè anch’essi devono recuperati alla società attraverso il processo di rieducazione all’interno del carcere, è giunto il momento di dire che l’unico deterrente nei confronti di questi mostri (senza virgolette) da parte di una società che vuole ritrovare il rispetto di sé stessa e vuole proteggere i più indifesi dei suoi componenti, è quella di una soluzione definitiva: vita per vita.
Sappiamo che chi ha soppresso la vita di Alessandro non potrà mai essere né recuperato né reinserito, ma anche se fosse sarebbe un abominio intollerabile dare a lui quella possibilità di vita che, consapevolmente, per pura ferocia, ha tolto ad un bambino di otto mesi.
Conosciamo a memoria le obiezioni di quanti ritengono che la pena di morte sia un deterrente, che rappresenti solo una mininua vendetta dello Stato, che è un atto incivile e cosi via blaterando, ma non pretendiamo che la si applichi a costoro, almeno solo a chi massacra ed uccide senza alcuna umana pietà dei bambini, nella speranza che possa servire da deterrente.
No, siamo convinti che essa rappresenti un deterrente perchè i mise rabili alla propria vita ci tengono, ma è prioritario per noi dare una risposta di giustizia.
E’ la sola risposta giusta è quella di sopprimere senza rimpianti chi ha soppresso una vita innocente, chi ha torturato un bambino di otto mesi, chi lo ha massacrato per il puro piacere di farlo.
Come si sopprime un ragno velenoso all’interno di una casa per prevenire che possa fare del male a qualcuno, così bisogna eliminare chi lo ha fatto per evitare che fra dieci anni esca in permesso premio per partecipare a qualche “via Crucis” o venga intervist­to in televisione per raccontarci che non dorme la notte per i rimorsi e che vuole uscire dal carcere per fare del bene, in nome e nel ricordo di chi ha assassinato.
Una società che mantenga vivo il senso della giustizia non illumi ni i suoi monumenti quando si evita la pena di morte ad una bestia sotto sembianze umane, lo fa, viceversa, quando riesce a salvare i suoi figli e ad eliminare chi vuole ucciderli.
Mi rendo conto che il Suo sito non è il più idoneo, perchè dedica to alla vita, per parlare di morte, ma parlando della morte di un bambino di otto mesi, solo ultimo in ordine di tempo, spero che possa pubblicare egualmente questa mia che esprime il pensiero di tanti, di una maggioranza di italiani che non hanno pero più il coraggio di esprimere il loro convincimento.
La vita dei nostri figli va difesa con ogni mezzo, perchè devono avere la possibilità di viverla, questa loro vita, che non puù dipendere dalla fortuna di incontrare o meno il mostro che gliela toglierà.
E per quanti oseranno attentare alla vita e all’innocenza dei bambini, ci deve essere implacabile ed inesorabile la certezza di essere cancellati dal mondo dei vivi.
Allora avrà un senso deporre un fiore sulla tomba di Alessandro e di tanti altri bambini come lui in un mondo in cui prevarrà la pietà per loro e non quella per i loro assassini.

Vincenzo

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