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Posts Tagged ‘Renato Vallanzasca’

 

La fotografia di Yara ci riporta l’immagine di una bambina dal sorriso sbarazzino, dinanzi al quale avventiamo il senso dell’impotenza totale.

L’appello dei genitori di Yara, inutilmente rivolto al senso di pietà di quanti hanno strappato la figlia, al loro affetto, accresce il senso di sgomento e di furore nei confronti di quanti da mezzo secolo a questa parte hanno callidamente preferito schierarsi dalla parte dei carnefici contro, le vittime.

Cosa, dire ai disperati genitori di Yara? Parole di inutile conforto, preghiere che non hanno senso, fiaccolate che dimostrano la solidarietà dei paesani, ipocriti servizi televisivi che fanno da palcoscenico a giornalisti cinici ed esperti in cerca di pubblicità per parlare di un dolore che non provano e di un senso di pietà che non hanno.

Da un lato il sorriso di Yara, dall’altro il servizio su Vallanzasca, l’appello dei genitori di Yara e la reiterazione de “Il Padrino”, il dolore e i detenuti che mangiano a Natale insieme ai frati e ai preti della Comunità di Sant’ Egidio.

Il bene e il male posti sullo stesso piano, vittime e carnefici da compatire entrambi, fra le notizie sul millesimo amore della velina di turno il matrimonio del principe di Galles.

Se mai il cuore ci avesse suggerito di indirizzare uno scritto ai genitori di Yara, non troviamo le parole per dire quello che si prova dinanzi ad un dramma che, quando concluso, se concluso, passerà come sono passati tutti gli altri ai quali abbiamo assistito in tanti anni.

Non si perdere la speranza che Yara possa tornare, ma questo non attenua la rabbia per aver permesso che qualcuno l’abbia portata via, l’abbia strappata al suo mondo, ai suoi affetti, le abbia fatto conoscere, nel modo peggiore, il peggio del mondo e degli uomini.

Dinanzi al dolore composto e dignitoso dei genitori di Yara, tale da imporre rispetto perfino ai giornalisti italiani che hanno, per una volta, accantonato la loro leggendaria volgarità e scompostezza, si può solo partecipare nel silenzio solidale di chi chiede, con forza, alla gente di scuotersi, di liberarsi di tutto il ciarpame che ne ha oscurata la coscienza, per dire che Yara sia la fine e 1’inizio.

La fine del tempo del pietismo d’accatto verso i criminali, l’inizio della ricostruzione di un mondo più giusto, dove la difesa e la protezione degli innocenti siano considerate prioritarie rispetto ai diritti di chi, per sua scelta e per sua infamia, si è posto al di fuori del genere umano.

Perché la ferocia e la crudeltà non hanno sempre e soltanto spiegazioni psicoanalitiche, non scaturiscono da ricordi d’infanzia maltrattata, dalla nonna ubriacona, dalla madre infedele, dal padre zotico e manesco, ma hanno le loro radici e la loro spiegazione nella

natura umana, dove luce e tenebre convivono e si combattono, dove
troppo spesso per la viltà dei tempi le seconde finiscono per prevalere sulla prima.

E mentre si preparano i cenoni e i balli e le feste di Capodanno, il sorriso di Yara suscita angoscia per la sua sorte e c’induce a chiederci quanti altri lupi, in veste di uomini, dobbiamo far vivere e proteggere perché possano fare del male a mille e mille altre Yara?

Se mai avessimo potuto scrivere ai genitori parole di speranza e di conforto e, insieme, dare loro certezza di giustizia, lo avremmo fatto.

La speranza sul ritorno di Yara rimane, la certezza della giustizia non c’è, anzi è cancellata dai codici e degli animi.

E allora è più giusto il silenzio nella trepida attesa, facendo nostro il tormento dei genitori, di quanti hanno ancora un cuore, un animo ed una coscienza.

Vincenzo

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Finisce l’anno 2010, ed è tempo di bilanci: morti per droga, per incidenti stradali dovuti all’ubriachezza ed alla droga; donne uccise; ammazzati dalla malavita; bambini scomparsi; numero dei reati; arrestati, detenuti, assolti, prosciolti ecc.

Una marea di cifre per nascondere la realtà di una società che si avvia alla dissoluzione, incapace di difendere sé stessa ed i suoi componenti, in particolare i più fragili, i più indifesi, i suoi figli.

Quante Sara abbiamo visto comparire sui teleschermi e poi scomparire per sempre dalla vista e dalla memoria in questi anni?

Quante Yara abbiamo visto cercare e trovare spazio sulle pagine dei giornali e in televisione fino al momento in cui qualche altro evento, più succulento dal punto di vista dell’audience e della vendita di copie non le ha fatte cadere nel dimenticatoio?

Tante, insieme ai Tommy, ai piccolissimi di cui nessuno ricorda più né il volto né il nome.

E’ una società che si è assuefatta al male, che accetta tutto con rassegnazione, se non con indifferenza.

Ci propongono, per combattere la mafia, “Il padrino”, “Il capo dei capi”, “L’onore e il rispetto”, tutti films e sceneggiati apologetici che presentano mafiosi come non ne sono mai esistiti, con regole di un onore che non hanno mai avuto, con una dignità che non sanno nemmeno cosa sia, per alimentare leggende di cui la storia e la verità hanno giustizia da tempo.

Ci proiettano films su malavitosi da trivio e d’ accatto, come quelli della banda della Magliana e Renato Vallanzasca, spacciati per “fiori del male”, invece che presentati per i topi di fogna che sono stati.

Fanno sfilare in televisione finti ravveduti e pentiti, perché dicano ai loro simili che non si devono preoccupare, che possono fare quello che desiderano, tanto poi il carcere li recupera, li rieduca e gli consente di rifarsi una vita e, spesso, anche i reati.

E’ un continuo susseguirsi di immagini, di interviste, di storie che si abbattono su una popolazione indifesa che non comprende a chi interessi la storia d’amore di Renato Vallanzasca, periodicamente riproposta per motivi oscuri e certamente abietti, cosi la lieta novella del fidanzamento di Marco Furlan, che ha scontato 17 anni di carcere per quindici omicidi mancando per un soffio l’ obiettivo di incendiare una discoteca nella quale avrebbero potuto trovare la morte qualche centinaio di giovani, per tacere della nuova vita di Pietro Maso, massacratore di padre e madre per impadronirsi dell’eredità.

Questo è il mondo in cui fanno vivere una generazione che si affaccia ora alla vita, insegnando che il male non esiste, sostituito dallo “sbaglio” che si può e si deve rimediare con la rieducazione, ma dove non esiste nemmeno il bene perché tutti gli uomini sbagliano e nessuno ha, quindi, il diritto di ergersi a giudice degli altri e tantomeno di condannare.

Un mondo senza luce, dove un’ oscurità perenne rende tutti egualmente peccatori, un

purgatorio perenne dove però sono chiamati ad espiare solo i deboli e gli innocenti.

L’inferno non esiste più. La Chiesa lo ha dichiarato uno stato d’animo, intriso di tristezza perché l’anima è lontana da Dio, ma senza sofferenze per carità, ma quale espiazione, suvvia, un giorno Dio perdonerà tutti, anche i più incalliti fra i peccatori.

Cosi, un poco al giorno, lentamente, il veleno è stato iniettato in una società chiamata a condannare chi condanna, a punire chi punisce, perché la giustizia “giusta” è quella che assolve o, comunque, è clemente; e civile è quello Stato che non condanna a morte chi magari, ha ucciso decine di persone dopo averle atrocemente seviziate, ma lo rieduca, con il lavoro in carcere, il televisore a colori, il permesso premiale, la semi-libertà , ecc. ; buono è il padre che parla da amico con i figli e, magari, si droga con loro o lascia la camera da letto a disposizione delle figlia che deve fare le sue esperienze e vivere i suoi amori giovanili.

Una sovversione totale, capillare, di tutti i valori e di tutte le regole per distruggere una società senza avere un modello per ricostruirla.

Il primo passo è compiuto: questa non è più una società civile, è un insieme smarrito di uomini e di donne che vivono senza certezze, che si nutrono solo di dubbi, che procedono fra i “ma” e i “se” di chi non è più in grado di affermare anche una sola verità, la più elementare,che può darsi che sia sbagliata, anch’essa, come tutto il resto.

E Yara e le altre? Fanno audience,le interviste televisive, la predica del prete, le veglie di preghiera, i commenti degli esperti di turno, capaci di incolpare loro, Yara e le altre, per aver dato fiducia a chi non la meritava, per non essere state sufficientemente accorte, perché non c’è un limite alla decenza.

Così come quando si giunge alla domanda: come le difendiamo? Ecco tutti arrampicarsi sugli specchi del non dire, dell’ attendere che lo dica un altro, per trovarsi infine tutti d’accordo sul fatto che bisogna varare una campagna pubblicitaria per indurre Yara e le altre a non fidarsi di nessuno, nemmeno di mamma e papà.

Nessuno, però, ha ancora proposto di lanciare una campagna pubblicitaria diretta ai mostri (senza virgolette) per indurli a rispettare Yara, le altre, gli innocenti.

Sanno che è inutile, ma in fondo non gli interessa a politici, giornalisti ed esperti di Yara e le altre.

Non hanno avuto la faccia tosta di far sapere alla mamma di Sara Scazzi che i carabinieri stavano cercando il cadavere della figlia in diretta tv dalla casa di chi l’aveva uccisa?

Poi, si sono autocommiserati e hanno dibattuto se la televisione deve porsi dei limiti oppure no.

Quante volte abbiamo ascoltato attoniti i giornalisti che chiedevano a padri e a madri, straziati dal dolore, “cosa prova in questo momenti?”, “è disposto a perdonare?”.

Abbiamo atteso invano un gesto liberatorio, certo violento ma non eccessivo, come quello di infilare il microfono in bocca all’intervistatore, spulandogli in un occhio, ma persone schiantate dal dolore non si sanno difendere.

Forse sarebbe giusto che altri prendessero a pedate questi giornalisti ai quali, dopo, chiedere “cosa prova adesso?”, “è disposto a perdonare?”.

Le conseguenze non consigliano di procedere con metodi cosi diretti, perché si scatenerebbe la campagna per la difesa della libertà di informazione con la richiesta di pene severissime per quanti la insidiano.

Perché, gli italici giornalisti alla ricerca disperata di chi è disposto a perdonare chi gli ha ammazzato un figlio o una figlia, i calci in culo non li perdonerebbero di certo.

E Yara e le altre?

Tutti nella nostra coscienza sappiamo come vanno difese, protette e, se del caso, vendicate. Perché la giustizia è anche la vendetta di una società giusta che la racchiude in una parola sola: morte.

Vincenzo

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La commissione di reati in questo Paese suscita ancora indignazione?

La vicenda, ultima in ordine di tempo, di Ruby,la bella marocchina che ha messo nei guai il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, sembra provare il contrario.

Del diluvio di commenti seguiti alla telefonata di Berlusconi per farla rilasciare dalla Questura, non uno è stato dedicato al fatto che Ruby è una ladra.

Già, perché la ragazza è stata denunciata da un’amica che la ospitava per averle rubato 3 mila euro.

A Ruby, mancavano 3 giorni per diventare maggiorenne, quindi non si può invocare per lei l’incapacità di intendere e di volere; non pativa la fame, quindi non ha rubato per

comprarsi un tozzo di pane o trovare un misero alloggio dove abitare e ripararsi dal freddo.

Poco interessa sapere perché Ruby abbia rubato, ma conta notare come si presenti in discoteca con ampie scollature e vestiti firmati con generoso spacco laterale, per farvi la reginetta di chi e di cosa non si comprende.

O meglio si comprende perfettamente che Ruby sul furto e su quanto altro ne è seguito, ha compreso che può farci carriera e divenire famosa.

Ruby è precoce, quindi, ha ben compreso la differenza che passa fra la barbarie islamica che il furto lo punisce ancora, e la civiltà cristiana dove il ladrocinio è lo sport nazionale e, spesso, serve per farsi notare ed ammirare.

Finiti i tempi oscuri in cui chi rubava, una volta scoperto, si vergognava circondato dalla riprovazione sociale, oggi una come Ruby se ne può vantare, sicura di non andare incontro a critiche e a sanzioni penali.

Figurarsi, in un Paese in cui i minori di anni 18 possono ammazza re e stuprare senza farsi un giorno di galera perché vengono subito posti alla messe in prova in una comunità dove hanno il solo compito di svolgere lavori leggeri (per carità, leggeri), cosa faranno mai a Ruby per aver rubato solo tremila miseri euro? Le vieteranno per tre giorni di andare in discoteca.

E’ anche giusto così. I condannati per mafia sono senatori, gli inquisiti per camorra sottosegretari, gli imputati per corruzione presidenti del Consiglio, i prostituti deputati, le prostitute sono contese nelle trasmissioni televisive, non si può infierire su una piccola ladra.

Si parla sempre del malessere italiano, sul piano sociale e politico, ma nessuno riesce ad individuarlo nello smarrimento del senso morale.

Come potrà mai risollevarsi un paese quando ad un topo di fogna, Renato Vallanzasca, si fa un film dal romantico titolo de “Il fiore del male”, ci si vanta in televisione delle scarcerazioni di Pietro Maso che ha ammazzato padre e madre, di Marco Furlan che è stato il primo serial killer italiano con 15 morti ammazzati e ha fatto in tutto 17 anni di galera?

Pochi esempi sui tantissimi che se ne potrebbero portare, per di re che, lentamente, un poco alla volta, si convincono gli italiani che il male non esiste, sostituito dall’ “errore” che tutti possono commettere e che, per questa ragione, deve essere compreso e sanzionato in modo ragionevole perché chi lo commette deve avere la seconda opportunità e rientrare nella società civile dove potrà rifarsi una vita.

Come si fa a negare a uno come Furlan che ha fatto 15 omicidi la possibilità di uscire dal carcere, trovarsi un lavoro, fidanzarsi e godersi la vita e la fidanzata?

Mica siamo barbari!

Se questo è il giusto trattamento di un serial killer, possiamo la sciare in libertà, anzi in Parlamento, chi intrallazza con mafia, camorra e n’drangheta, mandare a piede libero chi ammazza con la macchina perché ubriaco e drogato, e così via rapinando, ammazzando, stuprando, spacciando e rubando.

La marocchina Ruby ha compreso come vanno le cose in Italia, quindi c’è da esserle grati se ha scelto, per diventare famosa, di fare solo un modesto furto invece di ammazzare qualcuno, tanto per lei sarebbe cambiato poco o niente.

Un dirigente iraniano, commentando la difesa di Sakineh, la donna condannata a morte per aver ucciso il marito in concorso con due amanti, da parte del governo italiano, ha commentato: “Noi siamo dalla parte delle vittime, voi da quella dei killer”.

Difficile dargli torto, anzi impossibile se pensiamo che Valerio Fioravanti e Francesca Mambro con 96 morti ammazzati sulla coscienza hanno fatto meno di venti anni di carcere e sono in prima linea per l’abolizione della pena di morte nel mondo.

Certo, i loro appelli non li possono sottoscrivere i 96 italiani, uomini, donne e bambini, che loro hanno ucciso, ma questo è dettaglio che non interessa a politici e giornalisti.

Il male italiano è, principalmente, in questo svanire del senso morale che si traduce, in pratica, nel venire meno del senso di giustizia e di equità.

Dare ad ognuno il suo, in questa Italia, significa fare il funerale a chi è stato ucciso e dare il permesso premio a chi l’ha ammazzato.

E’ il caso di rivedere i meccanismi, di correggere la rotta, di dare a chi merita e di togliere a chi demerita, di incoraggiare gli onesti e di punire i disonesti, di riscoprire cioè che esiste una linea divisoria che separa nettamente il bene dal male sia nella coscienza degli uomini che nella società.

E’ venuto il momento di riscoprire il valore di una parola affascinante e terribile: Giustizia.

Vincenzo

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