La fotografia di Yara ci riporta l’immagine di una bambina dal sorriso sbarazzino, dinanzi al quale avventiamo il senso dell’impotenza totale.
L’appello dei genitori di Yara, inutilmente rivolto al senso di pietà di quanti hanno strappato la figlia, al loro affetto, accresce il senso di sgomento e di furore nei confronti di quanti da mezzo secolo a questa parte hanno callidamente preferito schierarsi dalla parte dei carnefici contro, le vittime.
Cosa, dire ai disperati genitori di Yara? Parole di inutile conforto, preghiere che non hanno senso, fiaccolate che dimostrano la solidarietà dei paesani, ipocriti servizi televisivi che fanno da palcoscenico a giornalisti cinici ed esperti in cerca di pubblicità per parlare di un dolore che non provano e di un senso di pietà che non hanno.
Da un lato il sorriso di Yara, dall’altro il servizio su Vallanzasca, l’appello dei genitori di Yara e la reiterazione de “Il Padrino”, il dolore e i detenuti che mangiano a Natale insieme ai frati e ai preti della Comunità di Sant’ Egidio.
Il bene e il male posti sullo stesso piano, vittime e carnefici da compatire entrambi, fra le notizie sul millesimo amore della velina di turno il matrimonio del principe di Galles.
Se mai il cuore ci avesse suggerito di indirizzare uno scritto ai genitori di Yara, non troviamo le parole per dire quello che si prova dinanzi ad un dramma che, quando concluso, se concluso, passerà come sono passati tutti gli altri ai quali abbiamo assistito in tanti anni.
Non si perdere la speranza che Yara possa tornare, ma questo non attenua la rabbia per aver permesso che qualcuno l’abbia portata via, l’abbia strappata al suo mondo, ai suoi affetti, le abbia fatto conoscere, nel modo peggiore, il peggio del mondo e degli uomini.
Dinanzi al dolore composto e dignitoso dei genitori di Yara, tale da imporre rispetto perfino ai giornalisti italiani che hanno, per una volta, accantonato la loro leggendaria volgarità e scompostezza, si può solo partecipare nel silenzio solidale di chi chiede, con forza, alla gente di scuotersi, di liberarsi di tutto il ciarpame che ne ha oscurata la coscienza, per dire che Yara sia la fine e 1’inizio.
La fine del tempo del pietismo d’accatto verso i criminali, l’inizio della ricostruzione di un mondo più giusto, dove la difesa e la protezione degli innocenti siano considerate prioritarie rispetto ai diritti di chi, per sua scelta e per sua infamia, si è posto al di fuori del genere umano.
Perché la ferocia e la crudeltà non hanno sempre e soltanto spiegazioni psicoanalitiche, non scaturiscono da ricordi d’infanzia maltrattata, dalla nonna ubriacona, dalla madre infedele, dal padre zotico e manesco, ma hanno le loro radici e la loro spiegazione nella
natura umana, dove luce e tenebre convivono e si combattono, dove
troppo spesso per la viltà dei tempi le seconde finiscono per prevalere sulla prima.
E mentre si preparano i cenoni e i balli e le feste di Capodanno, il sorriso di Yara suscita angoscia per la sua sorte e c’induce a chiederci quanti altri lupi, in veste di uomini, dobbiamo far vivere e proteggere perché possano fare del male a mille e mille altre Yara?
Se mai avessimo potuto scrivere ai genitori parole di speranza e di conforto e, insieme, dare loro certezza di giustizia, lo avremmo fatto.
La speranza sul ritorno di Yara rimane, la certezza della giustizia non c’è, anzi è cancellata dai codici e degli animi.
E allora è più giusto il silenzio nella trepida attesa, facendo nostro il tormento dei genitori, di quanti hanno ancora un cuore, un animo ed una coscienza.
Vincenzo