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Posts Tagged ‘educazione’

Nella società di oggi, dove poca attenzione viene riconosciuta ai doveri degli adulti nei confronti del bambino, il ruolo e il valore educativo dei nonni possono assumere una grande importanza, entrando, tra l’altro, in contrasto con la visione strettamente individualista ed egoista che caratterizza la nostra realtà.

I profondi cambiamenti all’interno della società e della famiglia hanno prodotto una nuova immagine di nonno, che in un certo senso si allontana molto dall’idea tradizionale del nonno come depositario di saggezza e cultura della vita.

Il nonno d’oggi molto spesso lavora ancora, vive lontano dai figli e se una volta il numero dei nipoti era più elevato di quello dei nonni, oggi stiamo assistendo ad un capovolgimento della situazione.

Nonostante questi cambiamenti culturali richiedano una ridefinizione dei ruoli e delle competenze degli attori che partecipano “al salto generazionale” (da figlio a genitore, da genitore a nonno), il valore del rapporto nonno-nipote deve essere salvaguardato.

I rapporti intergenerazionali sono connotati da forti implicazioni affettive ed emotive, dove il rapporto con i nonni può avere per il bambino un’importante rilevanza, anche per quanto riguarda l’ambito della socializzazione.

Il bambino ha la possibilità di vivere un legame significativo dove l’affetto e la fiducia diventano la base per accedere e condividere il proprio patrimonio familiare (la propria storia familiare, che è diversa dalla somma delle storie dei singoli membri che la compongono).

Il nonno dal canto suo, non vivendo le preoccupazioni educative tipiche del rapporto genitori-figli, è più tollerante, disponibile al dialogo, talora complice del nipote.

Molto spesso si accusa i nonni di viziare i nipoti. Di per sé questo non è un male, il bambino anche piccolo riconosce chi ha davanti a sé e si comporta di conseguenza differenziando il proprio comportamento a seconda delle persone con cui si rapporta. Il comportamento che terrà con il genitore sarà ben diverso da quello che terrà con il nonno. Questo però sarà possibile solo se il ruolo del nonno e quello del genitore saranno ben distinti, i nonni possono certamente arricchire la vita dei nipoti, ma non possono sostituirsi ai genitori.

L’ apporto dei nonni si configura dunque come un qualcosa di diverso che si aggiunge (anzi deve aggiungersi) alla difficile attività svolta dai genitori.

I genitori hanno il preciso compito di favorire (e quindi non solo di non ostacolare) questa relazione, affinché i legami familiari intergenerazionali non diventino vincoli, come purtroppo molto spesso avviene, ma risorse.

 

 

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Nel breve volgere di una settimana si sono svolte due manifestazioni che hanno avuto entrambe lo scopo di contrastare la violenza e la morte.

E’ stata celebrata, da un lato, la Giornata contro la violenza sulle donne e, dall’altro, la Giornata contro la pena di morte indetta, quest’ultima, dalla Comunità di Sant’Egidio.

A levare la loro voce contro questa e quella, la violenza sulle donne e la pena di morte, sono stati gli stessi personaggi che si rappresentano, in questa maniera, come gli alfieri ed i difensori della civiltà odierna.

I telegiornali hanno snocciolato le cifre della violenza contro le donne, impressionanti per qualità e quantità, fra i quali spicca quello riferito alle donne uccise in 11 mesi: 115.

Centoquindici vite spezzate per sempre da mariti, fidanzati, conviventi, violentatori, bulli, rapinatori ecc. ecc.

Centoquindici assassini per i quali, quando arrestati, si è già messo in moto il meccanismo giudiziario e penitenziario che deve assicurare, il primo, una pena che dia a costoro la possibilità di essere reintegrati, in futuro, nella società, garantita dal secondo che assicura una rieducazione presunta ed un ravvedimento provato solo dalle parole e mai dai fatti.

Nel momento in cui centoquindici bare venivano calate nelle fossa, lo Stato volgeva il capo verso gli assassini e li rassicurava sulla loro possibilità di rifarsi una vita, di uscire dal carcere per coltivare i rapporti affettivi, di trovare magari un’altra donna che potrà consolarli per gli anni di carcere che, comunque, saranno costretti a fare.

E’ la logica del perdonismo esasperato, dell’indulgenza ad ogni costo, portata avanti da quanti hanno identificato la civiltà e la modernità con l’ impotenza dello Stato e della società dinanzi a quanti si ritengono in diritto di compiere crimini, anche i più atroci, salvo invocare il loro diritto alla vita e alla libertà.

Le classi dirigenti, oggi, hanno un solo impegno cancellare la parola giustizia per sostituirla con quelle di “clemenza”, “perdono”, “rieducazione”, nel tentativo di convincere il popolo che la sola giustizia è quella buona, che assolve, che condanna a pene miti, che comprende le ragioni degli assassini e salvaguarda i loro diritti, primi quello alla vita e alla libertà.

La lotta contro la pena di morte, vista come espressione di inciviltà e di barbarie, si propone esattamente questo obiettivo, quello di poter dire a chiunque che può delinquere, che può uccidere con la consapevolezza che lo Stato saprà comprendere ed aiutarli a riconoscere il loro errore perché possano tornare liberi e mondi dal peccato in una società attonita ma impotente.

In tutto questo manca qualcosa di sostanziale, quel senso di giustizia che ha accompagnato per millenni gli uomini di tutte le razze e che da mezzo secolo, si cerca, in tutti i modi, di cancellare.

Tutte le pene hanno una funzione preventiva e repressiva insieme, perché si rivolgono agli uomini per ammonirli e dissuaderli dal compiere reati che, quando commessi, trovano la loro sanzione certa, sicura, implacabile.

Lo Stato si rivolgeva agli uomini anche per dire che, ove non fosse stata sufficiente l’educazione, la religione, la morale, interveniva la giustizia che, provata la colpa, procedeva con massima severità nei confronti dei colpevoli.

Lo Stato s’imponeva, dunque, il compito di disarmare la mano di quanti, per motivi quasi sempre futili se non abietti, potessero sentirsi autorizzati ad uccidere innocenti.

Oggi, le classi dirigenti ritengono che non la mano degli uomini ma quella dello Stato che, nelle sue funzioni ha quella di proteggere la vita ed i beni dei cittadini, deve essere disarmata.

E’ lo Stato che sale sul banco degli imputati in veste di criminale perché non si può togliere la vita ad uomo, in quanto la vita è sacra, ecc. ecc.

Il rispetto per la vita, la persona e i beni altrui s’insegna, nelle famiglie, poi nelle scuole, fa parte integrante dell’educazione e della formazioni civica di ogni cittadino.

Ogni Stato che si rispetti svolge questa attività educativa alla quale, segue, necessariamente, una di carattere repressivo quando la prima si è rivelata inefficace per quanti ritengono di essere in diritto di infrangere le regole della civile convivenza.

La pretesa di dichiarare criminale lo Stato che punisce e considerare un “bravo ragazzo” che ha “sbagliato” chi commette reati che giungono fino all’omicidio, può appartenere solo a coloro che vogliono distruggerla società, non edificarne una nuova e migliore.

La pena di morte, come ogni altra pena, ha un valore dissuasivo meno per una minoranza di uomini che sono fisiologicamente portati al crimine.

Ma, se l’ombra del patibolo non costituisse un deterrente efficace, la pena di morte rappresenterebbe un atto di giustizia, vera, autentica, quella che non ritiene che un omicida di bambini debba sopravvivere ai piccoli innocenti che ha massacrato, semplicemente perché la sua vita non ha più ragione d’essere.

Non è tollerabile che, da un lato, si pianga su centoquindici bare fingendo di non sapere che molte fra queste sarebbero rimaste vuote se gli assassini fossero stati consapevoli di andare incontro, per il loro crimine, a sanzioni estreme.

Non si può prevenire la violenza contro le donne stampando una guida che insegni a queste ultime come riconoscere a tempo le intenzioni dei loro aggressori e dei loro uccisori.

Perché questa è la risposta dello Stato, questo lo scudo che dovrebbe proteggere le donne dalla violenza e dalla morte.

Se stare dalla parte degli innocenti è barbarie, se ritenere che la vita di donne, bambini, innocenti abbia valore e quella dei loro assassini no, allora è onorevole dichiararsi barbari, scegliendo di stare dalla parte dei giusti e della giustizia.

Vincenzo

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In seguito alle trasformazioni del contesto socio-culturale, dagli anni ’60, si è andato modificando la visione tradizionale della famiglia e con essa il ruolo assunto dal padre.

Se prima vi era, generalmente, un mantenimento dell’asimmetria dei ruoli, con gli anni si è assistito ad una ridefinizione del ruolo paterno in termini di “regista invisibile” .

A partire dagli anni ’80, le ricerche empiriche hanno sottolineato l’importanza della relazione tra il padre e il proprio figlio, relazione che si struttura fin dalla nascita del bambino in modo parallelo a quella che si crea con la madre.

Si sostiene, ad esempio, che la figura paterna influenzi lo sviluppo fetale: la stessa vibrazione della voce maschile favorisce lo sviluppo di organi che vengono stimolati in modo minore dalla voce della mamma.

Altri studi evidenziano come il neonato riesca a stabilire legami di attaccamento con il padre, il quale dimostra di possedere sensibilità e ricettività per occuparsi di lui.

Il padre è fondamentale nell’offrire un’alternativa alle funzioni di rispecchiamento che la madre esercita sul proprio figlio. Un padre poco presente o distante a livello emotivo può incrementare il rischio di una dipendenza simbiotica tra madre e figlio che può perdurare nel tempo rendendo ancora più arduo il processo di autonomia del bambino.

La madre e il padre offrono differenti stimoli e occasioni, la presenza e il coinvolgimento paterno permettono al figlio di assistere non solo alla cooperazione tra i genitori, ma anche a momenti di confronto e scambio di idee, momenti che possono “tornare utili” nello sviluppo delle sue capacità relazionali.

In merito a quanto detto fin’ora, tuttavia, è bene sottolineare che la ridefinizione del ruolo paterno (e i suoi evidenti elementi positivi) tende a scontrarsi con un passato il più delle volte ridotto a stereotipo dove il padre era quello autoritario, emotivamente distante o fisicamente assente.

L’immagine del padre di oggi molto spesso fa fatica a tradursi in un cambiamento concreto, ben visibile su larga scala. (In un’indagine condotta sui padri e i loro figli, condotta nel 2002, i papà italiani occupavano l’ultimo posto in Europa).

Inoltre, la ridefinizione del ruolo paterno, non coincide ancora con un uguale impegno e responsabilità nella cura e nell’educazione del proprio figlio, come al contrario avviene con la madre.

Si pensi ad esempio al congedo parentale, un’opportunità usufruita da un numero molto ristretto di padri. (Dati Istat e Osservatorio Nazionale sulla Famiglia ).

La positività di questo nuovo padre (almeno idealmente) non ha nulla a che vedere con quello che è diventato nell’immaginario il “mammo” .

Non si chiede assolutamente al padre di diventare un’imitazione o una sostituzione della madre ma di alternarsi a questa, partecipando alle cure del figlio e alla sua educazione, in un modo differente ma ugualmente necessario.

 

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La riflessione sulla questione educativa è senza dubbio l’espressione più lampante di una società che confida e investe nel proprio futuro e, al tempo stesso, che si impegna a riconoscere il bambino come portatore di “risorse vitali”.

Ma i diritti sulla carta e non praticati non ci rendono di certo migliori agli occhi dei bambini, né tanto meno ci aiutano a intraprendere un cammino già di per sé complesso ed articolato.

Come già detto, è innegabile la necessità che gli adulti si assumano le dovute responsabilità, assicurando ad ogni bambino di “trovare il proprio posto”, nella vita e nel mondo.

Da questo presupposto nasce la discussione, sfortunatamente (o fortunatamente), ancora aperta sull’asilo nido, visto come servizio all’infanzia.

Dopo il 1971, con la creazione degli asili nido (legge 1044), lo Stato ha fatto veramente poco (ricomparendo di tanto in tanto ad esempio negli ultimi anni con la finanziaria del 2002 e poi del 2007).

La latitanza dello Stato non è di certo passata inosservata soprattutto da chi vive quotidianamente queste realtà ( chi più, chi meno) e da tutti quelli che auspicano con urgenza la necessità di una politica nazionale, dove gli asili nido siano finalmente sotto il (solo) controllo del Ministro dell’Istruzione. Invece dell’asilo nido, per varie ragioni, se ne occupano un po’ tutti con il risultato di una visione sempre e comunque parziale che non potrà mai portare ad una cambiamento culturale nei confronti di questo servizio.

Al contrario se vi fosse un organo statale, ben definito, che si assumesse la responsabilità di coordinare questo servizio, si potrebbe attuare un intervento diretto e capillare, evitando così disparità di gestione (anche tra nord e sud).

Ma non solo. Parlare di asilo nido non significa solamente rispondere ad una richiesta di posti ma garantire efficienza in termini qualitativi. Quello che però a livello nazionale non avviene!

Si pensi ad esempio al “Piano Nidi” (2007) in cui non si fa nessun accenno o allusione alla questione qualitativa, ma si parla solamente di stanziamenti per creare nuovi posti.

Indispensabile sarebbe invece portare allo stesso livello tutti i servizi presenti sul territorio, attraverso leggi che stabiliscano in modo rigoroso ed esauriente quali debbano essere i criteri essenziali dell’asilo nido.

E’ pur vero infatti che la mancanza di una legislazione nazionale ha permesso una buona gestione dell’asilo nido a livello regionale e locale (nelle zone dove l’educazione è fortemente sentita) ma è anche vero che in alcune regioni questa mancanza ha giustificato, e ancora giustifica, realtà poco efficienti e improntate sul “fare quello che si può”.

Non si parla solo di creare servizi laddove non esistono, ma di sostenere e non abbandonare quelli già esistenti.

Lo Stato è pertanto chiamato a finanziare gli asili nido (mettendo a disposizione strumenti economici e politici) intervenendo sui costi di gestione, aiutando la famiglia a sostenere la spesa per il servizio, ma al contempo fornendo linee guida comuni all’interno delle varie realtà.

Una proposta di questo genere è di certo dispendiosa, di difficile attuazione (anche per quanto riguarda i tempi necessari) e faticosa, tuttavia è una proposta che deve essere quanto prima presa in considerazione. Altrimenti continueremo semplicemente a dolerci per gli obbiettivi di Lisbona che non riusciremo a raggiungere, “regalando al vento” (ancora una volta?) l’educazione del bambino, il nostro e il suo futuro, costretti, per forza di cose, a dover chiudere un occhio. A volte tutti e due.

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In questi ultimi anni, anche in Italia sta prendendo piede in campo educativo una nuova figura: la “mamma di giorno” (Tagesmutter).

L’esperienza, partita dal nord d’Europa, è approdata anche in Italia, in primis in Trentino a seguire in Piemonte, Veneto, Lombardia, Emilia,…

Una riflessione immediata scaturisce dall’errato impiego di termini per presentare questa “nuova” realtà: parole come “diritti dei bambini”, “bisogni”, “educazione”, “collocazione ( e ricollocazione) della donna nel mondo del lavoro” non sembrano certamente rispecchiare il reale valore educativo di questa forma di cura.

Per diventare una Tagesmutter bisogna solitamente essere socia di una cooperativa, la stessa andrà a formare la nuova figura e svolgere i controlli. Secondo quali parametri? Quali programmi educativi? E’ lecito pensare ad un conflitto d’interessi?

Per diventare una Tagesmutter non è richiesto nessun titolo di studio specifico, si fa semplicemente riferimento alla vocazione di stare con i bambini.

Elena Gianini Belotti, pedagogista italiana, era stata molto illuminante quando parlando della “vocazione” sosteneva che lo spirito di sacrificio può essere molto sospetto. Si chiedeva come una persona sana di mente potesse scegliere di sacrificarsi spontaneamente, non solo in un particolare momento della sua vita, ma quotidianamente, per diverse ore al giorno, per lunghi anni.

La stessa Belotti riteneva invece che questa professione, come le altre (in modo particolare quelle che si occupano della persona), andrebbe scelta perché piace, soddisfa, rende felici, arricchisce chi la professa, pertanto non bisognerebbe considerare la vocazione come prima (e a volte) unica motivazione nella scelta di questo lavoro (anche se in alcuni momenti naturalmente è plausibile appellarsi allo spirito di sacrificio).

La Tagesmutter segue un corso di formazione di circa 200 ore e successivamente partecipa a momenti di formazione e coordinamento con il supporto di altre figure (coordinatrice, pedagogista, psicologa…). Tutte le figure sono formate all’interno della cooperativa con gli stessi insegnamenti e principi, senza parametri più generali e confrontabili con tutte le altre strutture che si occupano di cura dell’infanzia. Si crea dunque un “sistema chiuso” in cui non vi è confronto e quindi crescita.

Alcune cooperative vogliono “arrivare alla copertura 24 ore su 24” permettendo alla famiglia di usufruire solo nei momenti in cui ha bisogno, non consentendo così al bambino di metabolizzare quella continuità fondamentale di dare un ritmo e un tempo, indispensabile per il consolidamento di riti vitali.

Rifacendosi “ai bei tempi andati” si affidano i bambini alla “vicina di casa affettuosa e disponibile” (tutti hanno la fortuna di avere una vicina di casa affettuosa e disponibile?). Ma non credo proprio che le Tagesmutter si trovino fuori ad ogni porta, magari per arrivare a questa “vicina di casa” bisogna attraversare tutta la città, con il risultato che vengano a mancare dei punti di forza di questa realtà, cioè la comodità e la familiarità, dal momento che, all’inizio, la Tagesmutter è alla stessa stregua di qualsiasi maestra o educatrice.

Infine mi domando come si riesca ad assumere al tempo stesso due ruoli diversi quello di mamma e quello di “tata”. La mamma dovrà nel medesimo spazio e tempo educare suo figlio e quelli di altri. Ma come si comporterà con questi bambini con i quali emotivamente per natura è legata in maniera diversa? Comportarsi allo stesso modo mi sembra impossibile al di là della buona volontà della mamma. Si corre poi il rischio che, appellandosi all’ “imparzialità”, si vada a “darla sempre vinta” agli altri bambini e non al proprio, anche nelle situazioni nelle quali la bilancia pende a favore del figlio. Mi domando anche come si possano sentire questi piccoli vedendo la propria mamma andare al lavoro e non capire per quale sfortuna non possa rimanergli accanto, come la mamma in questione.

Penso che sia straziante sentire tutto il giorno un bambino chiamare “Mamma”e sentire che questa gli risponde per la semplice ragione che è presente! Mentre gli altri bambini non possono fare lo stesso dal momento che la loro mamma è al lavoro. Per quanto questa “mamma-tata” sia dolce e sensibile, non sarà mai la propria mamma!

Al nido nei giorni in cui il saluto del mattino è stato faticoso, lasciare la mamma, basta solo ascoltare questa parola: «Mamma!» detta da altri bambini o dalle educatrici che gli occhi si sgranano e si riempiono di lacrime…perché è una parola carica affettivamente, figuriamoci avere davanti agli occhi una mamma in carne ed ossa che non è la propria!

Stiamo parlando di bambini molto piccoli che fanno fatica a capire (avviene anche al nido) che una mamma può fare la maestra e lavorare. Per loro chi lavora, lo fa fuori dal nido e non riescono a capire per quale motivo la propria mamma non possa restare e fare la “tata”come fa la mamma del suo amichetto. Già è difficile far capire al proprio bambino di accettare una situazione che lui non ha voluto minimamente, figuriamoci spiegargli pure che la mamma deve andare al lavoro e non ha neanche scelto di fare la tata! Se fossi un bambino di un anno dubiterei che mia mamma mi possa voler bene e avrei in testa una grande confusione.

La scarsità di strutture disponibili, le liste d’attesa, le rette che arrivano a costare quanto lo stipendio di un’operaia sono questioni che possono essere in parte risolte se i finanziamenti fossero stanziati per potenziare i servizi esistenti senza che vengano destinati a nuove e poco efficaci realtà.

La donna ha il diritto di trovare una degna collazione nel mondo del lavoro e non di avere un semplice palliativo che la pone anche in un ruolo difficile come quello della Tagesmutter. Dare la possibilità di lavorare significa dare i mezzi per creare le condizioni in cui la donna possa affidare il figlio ad un servizio competente e di fiducia, e di poter scegliere quale professione attuare. La donna che è costretta a tornare a lavorare deve avere una reale possibilità di farlo e non al contrario “un contentino” per chi, purtroppo, non può avere altra scelta.

Rispondere ai bisogni dei bambini e delle donne e destinare a entrambi uno spazio idoneo non può essere risolto mettendo due piedi in una scarpa, soprattutto quando il nodo centrale è ancora una volta l’educazione.

Rispondere ai bisogni dei bambini e delle mamme significa studiare e mettere in atto soluzioni diversificate dove, finalmente, sia il ruolo assunto dallo Stato il comun denominatore.

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