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Posts Tagged ‘omicidio’

Spesso abbiamo dovuto fotografare dalle pagine di questo sito dedicato all’infanzia ed alle donne, l’impietosa realtà di un mondo che calpesta i diritti dei bambini, degli adolescenti e dell’altra metà del cielo.
All’inizio del nuovo anno, nulla ci giunge a conforto della speranza che qualcosa possa cambiare in meglio.
La cronaca di questi giorni ci ripropone le tragedie alle quali ormai siamo assuefatti e che sono divenute strumento di mera speculazione giornalistica.
A giorni, ricomincia su Rai Tre “Amore criminale”, una trasmissio ne dedicata alla ricostruzione di omicidi di donne, ad opera di mariti, conviventi, fidanzati, compagni di vita.
130 ogni anno, in Italia, muoiono in questo modo.
Forse, a nostro avviso, non servirebbe ricostruire le scene agghiaccianti e, spesso, morbose di questi delitti per fare audience, quando sa rebbe necessario dire se e come sono stati puniti i loro assassini, quando individuati e giudicati.
Parole amare potremmo scrivere su questo sfruttamento del delitto e delle vittime, oltraggiate anche dopo la morte, ma vogliamo iniziare il 2011 in altro modo, dedicando il nostro pensiero ai bambini e alle donne che vivono nella quotidianità di una vita, a volte precaria e difficile, con la forza ed il coraggio di chi non accetta un destino che li vuole eternamente subalterni, vuoi per età vuoi per sesso.
Nulla intenerisce più del sorriso dei bambini, dei loro sguardi limpidi, delle vocine ancora incerte che iniziano il cammino della vita, accompagnati dalla guida di genitori che li ritengono il fine ultimo della loro vita e li amano come i padri e le madri sanno amare.
Nulla è più gioioso del riso di una donna, più dolce di una sua carezza che rasserena e conduce in un mondo in cui non c’è spazio per i cattivi sentimenti, ma solo per quell’amore che è eterno come eterno è l’ Universo.
Non esiste un mondo senza bambini e senza donne che possa conoscer e felicità, perché sono loro che ne possiedono le chiavi, loro che possono donarla e rendercene partecipi.
La speranza è, quindi, quella che sempre più uomini possano com prendere, senza costrizioni o lavaggi cerebrali, quello che in fondo sanno fin dalla nascita, quando si abbracciavano alla madre, che la gioia dei cuori, anche quelli più inariditi, ci proviene dalle nostre donne e dai nostri figli.
Non è la gioia dei sensi, perché non sono, le nostre donne, mero strumento di piacere, ma qualcosa di molto più significativo che riempie un’intera esistenza e mai tradisce.
La speranza è che si riscopra la verità, oggi occultata, che l’amo re nelle sue realtà, spirituali e non fisiche, lo proviamo solo quando riusciamo a farci amare dai figli e dalle donne.
In un mondo confuso e disorientato, come quello in cui oggi vivia mo, dove si pretende di rendere eguali tutti e tutte, formando una nuova specie umana di esseri che non sono del tutto maschi e non sono del tutto femmine, l’ostacolo insuperabile ad ogni osceno disegno sono proprio le donne, la cui femminilità non è imitabile né trasmutabile, così che esse rimangono la vita e non potranno mai esserne la negazione.
Il ciclo eterno della vita passa per la donna, il frutto del suo amore sono i figli che rappresentano la continuità della vita, non solo di una specie.
La tecnologia moderna riduce l’uomo ad un animale da riproduzione, ma senza il corpo di una donna la vita non può nascere.
E noi riteniamo che essa debba nascere dall’amore, non dalla tecnologia perché i figli abbiano una madre ed un padre e quest’ ultimo, a sua volta, abbia possibilità di farsi amare da loro e dalla sua compagna.
Sono considerazioni che potrebbero essere giudicati banali, e lo sarebbero state in altri tempi, ma oggi hanno il valore intrinseco della riscoperta di un mondo che, via via, sta scomparendo a favore dalla moltiplicazione di novelli Frankstein creati in laboratorio o nelle sale chirurgiche.
La speranza è che si levi, pian piano, uno inno alla vita la cui verità non è contorta, è semplice ed immutabile, non soggetta a modifiche ed esperimenti.
La presunzione di certe élites è destinata ad infrangersi insieme ai mondo da incubo che stanno, un poco per volta, cercando di costruire nel momento in cui si farà strada la consapevolezza che la via della vita è una sola, da percorrere in due: una donna ed un uomo insieme, e con essi i loro figli.
Ma l’amore verso una donna non basta. Deve essere accompagnato dal rispetto e dalla stima che sono il corollario stesso dell’amore, e da questo non possono prescindere.
L’ augurio è, infine, quello che gli uomini possano ritrovare sé stessi e l’onore oggi perduto, quello che imponeva di difendere la donna e i bambini, anche da sé stessi, dalla propria ira, dai propri sentimenti quando feriti, perché chi infierisce su una donna o sui bambini non ha onore né dignità, va emarginato con giusto disprezzo.
Non sarà facile, in un mondo in cui le donne vengono esposte sulla linea del fuoco nei fronti di guerra in nome di una inesistente parità, con buona pace dell’onore militare, ma bisogna iniziare quel cammino a ritroso che, passo dopo passo, ci riconduca al momento in cui è iniziato quel processo che, in nome del progresso dell’umanità, ci sta conducendo all’autodistruzione.
Solo una donna, Carlotta Corday, ebbe il coraggio di levare il pugnale sul giacobino Marat.
Sarà ancora una donna, in modo meno cruento, a dare il segnale della riscossa?
Ce lo auguriamo.

Vincenzo

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Nel breve volgere di una settimana si sono svolte due manifestazioni che hanno avuto entrambe lo scopo di contrastare la violenza e la morte.

E’ stata celebrata, da un lato, la Giornata contro la violenza sulle donne e, dall’altro, la Giornata contro la pena di morte indetta, quest’ultima, dalla Comunità di Sant’Egidio.

A levare la loro voce contro questa e quella, la violenza sulle donne e la pena di morte, sono stati gli stessi personaggi che si rappresentano, in questa maniera, come gli alfieri ed i difensori della civiltà odierna.

I telegiornali hanno snocciolato le cifre della violenza contro le donne, impressionanti per qualità e quantità, fra i quali spicca quello riferito alle donne uccise in 11 mesi: 115.

Centoquindici vite spezzate per sempre da mariti, fidanzati, conviventi, violentatori, bulli, rapinatori ecc. ecc.

Centoquindici assassini per i quali, quando arrestati, si è già messo in moto il meccanismo giudiziario e penitenziario che deve assicurare, il primo, una pena che dia a costoro la possibilità di essere reintegrati, in futuro, nella società, garantita dal secondo che assicura una rieducazione presunta ed un ravvedimento provato solo dalle parole e mai dai fatti.

Nel momento in cui centoquindici bare venivano calate nelle fossa, lo Stato volgeva il capo verso gli assassini e li rassicurava sulla loro possibilità di rifarsi una vita, di uscire dal carcere per coltivare i rapporti affettivi, di trovare magari un’altra donna che potrà consolarli per gli anni di carcere che, comunque, saranno costretti a fare.

E’ la logica del perdonismo esasperato, dell’indulgenza ad ogni costo, portata avanti da quanti hanno identificato la civiltà e la modernità con l’ impotenza dello Stato e della società dinanzi a quanti si ritengono in diritto di compiere crimini, anche i più atroci, salvo invocare il loro diritto alla vita e alla libertà.

Le classi dirigenti, oggi, hanno un solo impegno cancellare la parola giustizia per sostituirla con quelle di “clemenza”, “perdono”, “rieducazione”, nel tentativo di convincere il popolo che la sola giustizia è quella buona, che assolve, che condanna a pene miti, che comprende le ragioni degli assassini e salvaguarda i loro diritti, primi quello alla vita e alla libertà.

La lotta contro la pena di morte, vista come espressione di inciviltà e di barbarie, si propone esattamente questo obiettivo, quello di poter dire a chiunque che può delinquere, che può uccidere con la consapevolezza che lo Stato saprà comprendere ed aiutarli a riconoscere il loro errore perché possano tornare liberi e mondi dal peccato in una società attonita ma impotente.

In tutto questo manca qualcosa di sostanziale, quel senso di giustizia che ha accompagnato per millenni gli uomini di tutte le razze e che da mezzo secolo, si cerca, in tutti i modi, di cancellare.

Tutte le pene hanno una funzione preventiva e repressiva insieme, perché si rivolgono agli uomini per ammonirli e dissuaderli dal compiere reati che, quando commessi, trovano la loro sanzione certa, sicura, implacabile.

Lo Stato si rivolgeva agli uomini anche per dire che, ove non fosse stata sufficiente l’educazione, la religione, la morale, interveniva la giustizia che, provata la colpa, procedeva con massima severità nei confronti dei colpevoli.

Lo Stato s’imponeva, dunque, il compito di disarmare la mano di quanti, per motivi quasi sempre futili se non abietti, potessero sentirsi autorizzati ad uccidere innocenti.

Oggi, le classi dirigenti ritengono che non la mano degli uomini ma quella dello Stato che, nelle sue funzioni ha quella di proteggere la vita ed i beni dei cittadini, deve essere disarmata.

E’ lo Stato che sale sul banco degli imputati in veste di criminale perché non si può togliere la vita ad uomo, in quanto la vita è sacra, ecc. ecc.

Il rispetto per la vita, la persona e i beni altrui s’insegna, nelle famiglie, poi nelle scuole, fa parte integrante dell’educazione e della formazioni civica di ogni cittadino.

Ogni Stato che si rispetti svolge questa attività educativa alla quale, segue, necessariamente, una di carattere repressivo quando la prima si è rivelata inefficace per quanti ritengono di essere in diritto di infrangere le regole della civile convivenza.

La pretesa di dichiarare criminale lo Stato che punisce e considerare un “bravo ragazzo” che ha “sbagliato” chi commette reati che giungono fino all’omicidio, può appartenere solo a coloro che vogliono distruggerla società, non edificarne una nuova e migliore.

La pena di morte, come ogni altra pena, ha un valore dissuasivo meno per una minoranza di uomini che sono fisiologicamente portati al crimine.

Ma, se l’ombra del patibolo non costituisse un deterrente efficace, la pena di morte rappresenterebbe un atto di giustizia, vera, autentica, quella che non ritiene che un omicida di bambini debba sopravvivere ai piccoli innocenti che ha massacrato, semplicemente perché la sua vita non ha più ragione d’essere.

Non è tollerabile che, da un lato, si pianga su centoquindici bare fingendo di non sapere che molte fra queste sarebbero rimaste vuote se gli assassini fossero stati consapevoli di andare incontro, per il loro crimine, a sanzioni estreme.

Non si può prevenire la violenza contro le donne stampando una guida che insegni a queste ultime come riconoscere a tempo le intenzioni dei loro aggressori e dei loro uccisori.

Perché questa è la risposta dello Stato, questo lo scudo che dovrebbe proteggere le donne dalla violenza e dalla morte.

Se stare dalla parte degli innocenti è barbarie, se ritenere che la vita di donne, bambini, innocenti abbia valore e quella dei loro assassini no, allora è onorevole dichiararsi barbari, scegliendo di stare dalla parte dei giusti e della giustizia.

Vincenzo

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La commissione di reati in questo Paese suscita ancora indignazione?

La vicenda, ultima in ordine di tempo, di Ruby,la bella marocchina che ha messo nei guai il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, sembra provare il contrario.

Del diluvio di commenti seguiti alla telefonata di Berlusconi per farla rilasciare dalla Questura, non uno è stato dedicato al fatto che Ruby è una ladra.

Già, perché la ragazza è stata denunciata da un’amica che la ospitava per averle rubato 3 mila euro.

A Ruby, mancavano 3 giorni per diventare maggiorenne, quindi non si può invocare per lei l’incapacità di intendere e di volere; non pativa la fame, quindi non ha rubato per

comprarsi un tozzo di pane o trovare un misero alloggio dove abitare e ripararsi dal freddo.

Poco interessa sapere perché Ruby abbia rubato, ma conta notare come si presenti in discoteca con ampie scollature e vestiti firmati con generoso spacco laterale, per farvi la reginetta di chi e di cosa non si comprende.

O meglio si comprende perfettamente che Ruby sul furto e su quanto altro ne è seguito, ha compreso che può farci carriera e divenire famosa.

Ruby è precoce, quindi, ha ben compreso la differenza che passa fra la barbarie islamica che il furto lo punisce ancora, e la civiltà cristiana dove il ladrocinio è lo sport nazionale e, spesso, serve per farsi notare ed ammirare.

Finiti i tempi oscuri in cui chi rubava, una volta scoperto, si vergognava circondato dalla riprovazione sociale, oggi una come Ruby se ne può vantare, sicura di non andare incontro a critiche e a sanzioni penali.

Figurarsi, in un Paese in cui i minori di anni 18 possono ammazza re e stuprare senza farsi un giorno di galera perché vengono subito posti alla messe in prova in una comunità dove hanno il solo compito di svolgere lavori leggeri (per carità, leggeri), cosa faranno mai a Ruby per aver rubato solo tremila miseri euro? Le vieteranno per tre giorni di andare in discoteca.

E’ anche giusto così. I condannati per mafia sono senatori, gli inquisiti per camorra sottosegretari, gli imputati per corruzione presidenti del Consiglio, i prostituti deputati, le prostitute sono contese nelle trasmissioni televisive, non si può infierire su una piccola ladra.

Si parla sempre del malessere italiano, sul piano sociale e politico, ma nessuno riesce ad individuarlo nello smarrimento del senso morale.

Come potrà mai risollevarsi un paese quando ad un topo di fogna, Renato Vallanzasca, si fa un film dal romantico titolo de “Il fiore del male”, ci si vanta in televisione delle scarcerazioni di Pietro Maso che ha ammazzato padre e madre, di Marco Furlan che è stato il primo serial killer italiano con 15 morti ammazzati e ha fatto in tutto 17 anni di galera?

Pochi esempi sui tantissimi che se ne potrebbero portare, per di re che, lentamente, un poco alla volta, si convincono gli italiani che il male non esiste, sostituito dall’ “errore” che tutti possono commettere e che, per questa ragione, deve essere compreso e sanzionato in modo ragionevole perché chi lo commette deve avere la seconda opportunità e rientrare nella società civile dove potrà rifarsi una vita.

Come si fa a negare a uno come Furlan che ha fatto 15 omicidi la possibilità di uscire dal carcere, trovarsi un lavoro, fidanzarsi e godersi la vita e la fidanzata?

Mica siamo barbari!

Se questo è il giusto trattamento di un serial killer, possiamo la sciare in libertà, anzi in Parlamento, chi intrallazza con mafia, camorra e n’drangheta, mandare a piede libero chi ammazza con la macchina perché ubriaco e drogato, e così via rapinando, ammazzando, stuprando, spacciando e rubando.

La marocchina Ruby ha compreso come vanno le cose in Italia, quindi c’è da esserle grati se ha scelto, per diventare famosa, di fare solo un modesto furto invece di ammazzare qualcuno, tanto per lei sarebbe cambiato poco o niente.

Un dirigente iraniano, commentando la difesa di Sakineh, la donna condannata a morte per aver ucciso il marito in concorso con due amanti, da parte del governo italiano, ha commentato: “Noi siamo dalla parte delle vittime, voi da quella dei killer”.

Difficile dargli torto, anzi impossibile se pensiamo che Valerio Fioravanti e Francesca Mambro con 96 morti ammazzati sulla coscienza hanno fatto meno di venti anni di carcere e sono in prima linea per l’abolizione della pena di morte nel mondo.

Certo, i loro appelli non li possono sottoscrivere i 96 italiani, uomini, donne e bambini, che loro hanno ucciso, ma questo è dettaglio che non interessa a politici e giornalisti.

Il male italiano è, principalmente, in questo svanire del senso morale che si traduce, in pratica, nel venire meno del senso di giustizia e di equità.

Dare ad ognuno il suo, in questa Italia, significa fare il funerale a chi è stato ucciso e dare il permesso premio a chi l’ha ammazzato.

E’ il caso di rivedere i meccanismi, di correggere la rotta, di dare a chi merita e di togliere a chi demerita, di incoraggiare gli onesti e di punire i disonesti, di riscoprire cioè che esiste una linea divisoria che separa nettamente il bene dal male sia nella coscienza degli uomini che nella società.

E’ venuto il momento di riscoprire il valore di una parola affascinante e terribile: Giustizia.

Vincenzo

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L’ attenzione di milioni di italiani, sollecitata, dalla spettacolarizzazione compiuta dai soliti mezzi di comunicazione di massa, è concentrata sull’omicidio della quindicenne Sara Scazzi ad opera dello zio.

Poco da dire sulla ferocia con la quale un uomo che questa ragazza aveva visto crescere, giorno dopo giorno, ha infierito su di lei, violentandola, e strangolandola, per poi fingere dolore e lacrime dinanzi alle telecamere.

La barbarie del gesto si commenta da sé. Le parole non servono per condannare l’omicidio e la violenza compiuta su una ragazza di 15 anni, servirebbe una sentenza esemplare che, naturalmente non sarà mai emessa.

Mentre il corpo di Sara giace ancora in obitorio, i dibattiti televisivi che si sono susseguiti per l’intera giornata hanno offerto il solito ignobile spettacolo della ricerca di “spiegazioni” e di attenuanti per l’omicida che, manco a dirlo, soffre di “carenze affettive” e via blaterando, e per esprimere la ferma condanna della pena di morte che la gente normale e per bene invoca, sostituita da una pena detentiva che consenta il recupero dell’assassino.

Devono ancora fare i funerali di Sara, ma il problema, è la rieducazione del “mostro” ed il suo ritorno in società, magari estorcendo il perdono dei familiari della vittima, secondo quella che è una prassi d’infamia consolidata.

Ma, in questi giorni di autunno, la nostra attenzione si è concentrata su due episodi di cui si è parlato poco, quasi niente.

Una madre ha strangolato il figlio di 3 anni, una seconda ha ucciso il figlio appena partorito, con la complicità del padre e di altre persone.

Mentre la violenza e l’omicidio di Sara rientrano nella storia infinita di episodi simili che vedono come vittime donne giovani e giovanissime, la facilità e la frequenza con cui donne, in numero sempre maggiore, uccidono senza pietà i loro figli,rappresenta un fenomeno nuovo e agghiacciante.

Alla base della soppressione violenta dei figli, tutti in tenerissima età, ci sono motivazioni che spaziano dalla voglia di fare carriera, alla depressione post-parto, alla necessità di lavorare, a quella di compiacere il compagno che figli fra i piedi non ne vuole, non una sola in grado di favorire la comprensione di quello che sta accadendo nelle coscienze di donne che hanno soppresso l’istinto materno trasformandosi nei carnefici dei propri figli.

Se la ferocia degli uomini verso le donne è cosa tristemente nota, quella delle madri verso i propri bambini rappresenta il segno più evidente di una barbarie che avanza senza incontrare alcuna resistenza.

Insieme alla donna soldato, alla top manager, alla pornostar, alla escort di lusso e di successo, alla “velina” e alla modella, alla donna libera, che dispone di sé stessa come meglio le aggrada, la modernità ha creato la donna boia dei figli che ha partorito.

L’unica motivazione che spiega, su un piano psichiatrico, l’omicidio di un figlio da parte di una madre è la depressione post-parto, che deriva però dalla solitudine in cui si trova una madre alle prese con i problemi , da sola, non riesce ad affrontare e a risolvere, o più semplicemente che non è in grado di gestire il figlio che ha messo al mondo.

Vuol dire che questa società che si pretende evoluta, che si vanta di aver dato libertà alle donne, è riuscita a cancellare in esse l’istinto ed il senso della maternità.

I figli sono un problema che, sempre più spesso, la donna non sa come risolvere perché si ritrova, sola a doverlo affrontare e di conseguenza, diventano un peso dal quale in qualche modo si devono liberare, in modo lecito e, sempre più spesso, in maniera illecita, sbrigativa, definitiva.

Se non c’è la possibilità di avere la “tata”, di portarlo all’asilo nido o alla scuola dell’infanzia, di toglierselo dai piedi per gran parte della giornata, il bambino che piange, che strilla, che cerca coccole che non può avere, che attende la pappa ed il gioco diviene un peso intollerabile.

Può una madre sopprimere in modo brutale un figlio? Le tigri non lo fanno, qualche cagnetta ha trascinato neonati abbandonati nella foresta nella propria cuccia, impietosita per la sorte orribile alla quale era stati destinati dagli uomini.

Quando nel cuore e nella coscienza delle madri, muoiono l’amore e la pietà per i figli, parlare di società civile diviene derisorio, una laida presa in giro per evitare di affrontare la realtà di un mondo che non sa più cosa sia la civiltà, confusa con il progresso tecnologico e tanto, ma tanto buonismo.

Bisogna, ora, difendere i diritti umani dello zio di Sara, primo quello del suo recupero sociale, così come quello di Anna Maria Franzoni la cui ricca famiglia è riuscita a mobilitare tutti per evitare che pagasse per il selvaggio omicidio del figlio, e via enumerando tutti i casi in cui in questa società civile conta solo la salvaguardia dei diritti di chi uccide mai il senso di giustizia per chi è stato ucciso.

Quante giovani mamme sono ora rinchiuse negli ospedali psichiatrici per aver ucciso i loro figli?

Non lo sappiamo. Sappiamo che non è vero che siano tutte afflitte da turbe mentali.

Tacere significa eludere il problema. Lo Stato, se esistesse, potrebbe fare molto per le mamme giovani garantendo loro il posto di lavoro, anche dopo un congruo periodo di inattività perché si possa occupare del figlio, incentivi economici, riconoscimenti sul piano sociale perché possa scoprire l’orgoglio ed il piacere di essere mamma, più gratificanti dell’essere una “velina”.

Si può, si deve aiutare le donne a riscoprire che essere madri non è una condanna sociale, che i figli non sono un peso che tolgono la possibilità di lavorare o di divertirsi o di fare carriera come modella od altro, che possono prendere a pedate nel deretano i loro inutili compagni, ma tenersi stretti al petto i loro figli che sono parte di sé stesse.

E se tantissimo si può fare per venire incontro alle esigenze delle donne che diventano madri, si può anche, di converso, evitare di trasformare una madre che ha ucciso suo figlio in una star televisiva almeno per evitare possano essere indotte ad emularle nella speranza di incontrare la stessa benigna sorte.

In questo modo, un poco per volta, riusciremo a ritrovare la civiltà perduta.

Vincenzo

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Era prevedibile che sulla donna iraniana condannata a morte per concorso nell’omicidio del marito e per adulterio, si scatenasse l’abituale campagna stampa contro un Paese che, in definitiva, ha una sola colpa: quella di essere annoverato fra i nemici dell’Occidente.

Le leggi islamiche sono, difatti, in vigore anche in altri Passi, dove vengono applicate con lo stesso rigore senza che questo scateni campagne umanitarie che urterebbero la sensibilità e la suscettibilità di governi amici dell’Occidente.

L’Arabia saudita, dove la sharia è legge di Stato, non è mai stata oggetto di attacchi politici e mediatici da parte dei Paesi occidentali per i quali, evidentemente, i diritti umani vanno difesi solo in quei posti dove le contingenze politiche lo richiedono.

Nessuno ha mai visto i politici italiani e la stampa mobilitarsi contro l’uso di far sfilare una donna nuda per le strade, come in uso in certe zone del Pakistan, amico degli Stati uniti, per punirla di comportamenti sessuali illeciti.

Lunga sarebbe la lista delle pene inflitte alle donne nei Paesi governati dagli amici e dagli alleati degli Stati uniti, delle quali nessuno osa parlare e, tantomeno, chiede di condannare.

Ma, quello che qui interessa è porre in rilievo come si usa una tragedia umana, come quella che coinvolge una donna, per un uso politico fingendo di non sapere che la condannata è stata giudicata da un Tribunale, nel rispetto dei suoi diritti alla difesa, che ha ammesso le sue responsabilità, che è detenuta da quattro anni, che, infine, se sarà uccisa pagherà per le sue colpe dinanzi alla giustizia del suo Paese di cui lei conosce le leggi e le pene.

Quante donne, in Italia ed in Europa, negli stessi giorni in cui scattava la mobilitazione politica e mediatica per la donna iraniana, sono state uccise per motivazioni varie e in modi diversi?

La differenza fra queste donne e quella iraniana è che loro sono state “giustiziate” innocenti, senza colpa, vittima di una barbarie che la giustizia occidentale non riesce più a contenere, per il massimo delle sue leggi, per la mancanza di senso della giustizia per il quale oggi l’assassino ha il diritto di ritornare nella società e riprendere il suo posto, dopo aver scontato una pena che spesso è irrisoria.

Alle donne italiane è rimasto il dovere di morire,ai loro assassini il diritto di vivere per essere recuperati alla società civile!

E’ un incitamento alla violenza ed all’omicidio, questo modo di intendere la giustizia per la quale i morti hanno il torto di essere morti, e i vivi che li hanno ammazzati hanno il diritto di “rifarsi una vita” perché, purtroppo, qualche anno di galera devono ancora farglielo fare, anche se stanno tentando di tutto per risparmiargli anche quello.

La vicenda tragica della donna iraniana ci pone dinanzi all’evidenza di due modi diametralmente opposti di concepire la giustizia: quello iraniano, dove chi uccide può essere ucciso, e quello italiano dove chi ha ucciso viene intervistato in televisione e, alla fine, gli fanno anche il film.

Inoltre, in Iran, secondo la legge islamica, la donna può salvarsi se i familiari della vittima le concederanno il loro perdono, perché solo a questi ultimi è riconosciuto il diritto di perdonare, mentre da noi lo rivendicano e lo esercitano direttori di carcere, magistrati di sorveglianza, politici e giornalisti, nessuno dei quali ha mai conosciuto la vittima.

Quante volte abbiamo ascoltato le parole accorate dei familiari delle vittime chiedere giustizia? Quanto volte li abbiamo sentiti recriminare perché gli uccisori dei loro cari erano già tornati in libertà, protervi ed arroganti?

Prendiamo, quindi, esempio dalla vicenda umana della donna iraniana per la quale non facciamo fatica ad esprimere l’augurio che possa comunque vivere, per riflettere sulle condizioni della nostra giustizia e del modo con il quale difende le donne.

Quanti uomini per i quali sparare, accoltellare, strangolare una donna è stata cosa facile, spiegandola con i motivi passionali, quasi che si possa far credere che sia l’amore ad indurre ad uccidere e non l’odio, si sarebbero fermati dinanzi alla prospettiva di essere a loro volta uccisi?

Nessuno pubblicizza il fatto che ad occuparsi del codice penale in Afghanistan, ci sono esperti italiani che lì fanno l’esatto contrario di quello che fanno qui: difatti, il codice penale afghano prevede la pena di morte e la fustigazione, che evidentemente sono ritenute compatibili con la civiltà di quel popolo.

Dato che l’Afghanistan attuale è sotto il controllo americano e della Nato, tutto appare lecito, compresa la condanna a morte e la fustigazione delle donne, comminate con l’avallo dell’Italia.

La falsità della politica e della stampa è cosa nota, ma si potrebbe cominciare a chiedere che si ristabilisca qui la giustizia, oggi inesistente.

Si potrebbe iniziare a pretendere che la difesa delle donne e dei loro corpi violati e maltrattati si faccia qui con lo stesso rigore che esiste in quei Paesi dove la vita umana ha ancora valore, dove non si può impunemente uccidere degli innocenti e dove ancora oggi si paga con giusta severità la violenza esercitata sulle donne.

Si, perché oggi si strepita per la vita della donna iraniana, ma da sempre si tace sulle condanne a morte degli uomini che hanno ucciso e violato delle donne.

Non sarebbe sbagliato proporre un referendum femminile per decidere quali pene infliggere ai carnefici delle donne. Le prime ad uscirne condannate sarebbero la politica e la giustizia attuale.

E, magari, per la prima volta, vedremo in televisione apparire qualcuno che dichiari come sia prioritaria la difesa della vita delle nostre donne innocenti, rispetto a quella di una donna colpevole di omicidio in un Paese lontano.

Sarebbe un primo decisivo passo per resuscitare la giustizia in Italia ed innalzare una prima, concreta barriera a difesa delle nostre donne.

Vincenzo

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Un corpo da sfruttare. L’uso che la cosiddetta civiltà occidentale fa del corpo delle donne e solo strumentale, serve a vendere prodotti, ad aumentare l’audience, a far affluire spettatori al cinema, a procurare voti ai partiti, a far fare carriera ai mariti, ai fidanzati e agli amanti.

Nella società post-femminista, lo spettacolo dello sfruttamento della donna, per quello che essa vale sul piano fisico ed estetico ha superato i limiti del tollerabile.

Non c’è un solo campo, ormai, in cui la donna non sia presa a pretesto per qualsiasi cosa, perfino per attaccare i regimi ostili all’Occidente.

Non vogliamo entrare nel merito dei torti e delle ragioni della contrapposizione fra i paesi dell’Unione europea, Israele e Stati uniti, da un lato, e la Repubblica islamica dell’Iran, dall’altro, ma ci chiediamo se anche in politica estera per fomentare l’ostilità nei confronti del “nemico” è necessario utilizzare soprattutto le donne ed il loro corpo.

Ci avevano provato con Neda, la sedicenne rimasta uccisa nel corso di scontri fra la polizia iraniana e gli oppositori del governo, per poi dover ammettere che il viso bellissimo della ragazza era quello di un’altra, viva e vegeta.

Perché, per toccare il cuore degli uomini, la donna deve essere anche bella e, da quelle parti, le leggi islamiche non consentono l’esibizione del corpo, ma solo del viso.

Ci stanno ritentando oggi, con il caso di una donna di 43 anni, condannata a morte per concorso in omicidio. Anche di questa hanno trasmesso in televisione la foto di una donna certamente bella, ma che nessuno garantisce che si tratti della protagonista, di una storia tragica sulla quale a noi appare indegno speculare.

Sarà perché lo sciacallaggio non ci appartiene, ma assistere allo spettacolo della mobilitazione dell’opinione pubblica per salvare la vita a questa donna, affermando che ha confessato in televisione la sua colpa perché torturata, che sarà lapidata perché colpevole di aver intrattenuto rapporti sessuali illeciti con due uomini, ritenuta colpa prevalente su quello dell’omicidio, ci pare eccessivo,anzi inaccettabile.

Soprattutto perché di donne uccise per reati per i quali è prevista la pena di morte nei paesi arabi e in tutti gli altri che la contemplano, sono piene le cronache. Solo che di queste donne non parla nessuno.

All’ Occidente non interessano le donne saudite, pakistane,yemenite, cinesi, irachene ecc. che finiscono dinanzi ai Tribunali per rispondere di crimini che contemplano condanne a morte e punizioni corporali.

Di tutto questo si parla, falsificando la realtà, sono se riguardano donne iraniane o afghane, vittime queste ultime ovviamente, degli immancabili talebani.

E tutte le altre? Se i governi dei loro paesi sono alleati degli Stati uniti e amici di Israele e dell’Unione europea, possono morire senza una parola di difesa e di pietà.

L’uso della donna e del suo corpo è ritenuto funzionale solo contro i nemici di una civiltà che è difficile, ormai, riconoscere come tale specie per il modo in cui tratta le sue donne.

Ci sono realtà diverse da quelle imposte a noi, così se in Iran, in Arabia saudita, Pakistan e così via una donna che uccide può essere a sua volta, uccisa dalla Stato in nome di una giustizia che ben conosciamo perché è stata anche nostra e non nei secoli passati, perché la pena di morte in Italia è stata abolita solo nel 1947, a maggioranza non all’unanimità ed il suo ripristino è stato più volte sollecitato anche da esponenti politici oggi ai vertici delle istituzioni, tanto ci può ispirare pietà per l’omicida ma non ci consente di giudicare e, tanto meno, di strumentalizzare una tragica vicenda umana per fini politici.

Perché, per equità, la televisione italiana non ci parla delle pene previste per chi violenta le donne e le uccide, in uso in quei Paesi?

Non conviene, visto che in Italia la pena di morte per le donne e le pene corporali, eseguite mediante violenza carnale e pestaggi, sono praticamente quotidianamente ed i loro autori sono condannati a pene irrisorie confortate dalla concessione di tutti i benefici di legge.

Invece, in Italia e non solo, perfino la violenza e l’uccisione delle donne è utilizzata per fare soldi: quanti sono i film e i telefilm quotidianamente trasmessi in questo Paese, in cui ci si compiace di descrivere le azioni di un serial killer di donne, di violentatori all’opera con la ripresa dettagliata delle loro imprese perché bisogna attirare l’attenzione morbosa degli spettatori?

IL corpo della donna attira, meglio se esposto, umiliato, tormentato, torturato. I produttori devono guadagnare, Rai e Mediaset devono vincere la guerra dell’audience, così perfino le presentatrici e le vallette dei quiz televisivi devono mostrare tutto quello che possono, meglio ancora se in sceneggiati, film e telefilm è possibile mostrare meglio e di più in scene di morte, di sesso e violenza.

Sarebbe, forse, il caso di introdurre una legge che vieti le scene di violenza sulle donne, specie quando nessuno ci mostra le punizioni dei violentatori, così che si esibisce il reato ma non il castigo, con il risultato di incentivare le violenze non di farle diminuire.

Invece, per odio politico e fini di bassa propaganda, di parlare della condanna a morte di una donna iraniana, colpevole di omicidio, per suscitare pietà perché non proviamo ad incentivare la pietà per le nostre donne in questo Paese?

Donne uccise, innocenti, perché non hanno ucciso nessuno; donne violate, calpestate, umiliate, pestate in nome di consuetudini radicate mai eliminate dalla coscienza degli uomini per i quali, forse, sarebbe il caso di ricorrere a quelle pene coraniche di cui nessuno mai parla.

Non si può fare? Ma, almeno, inaspriamo le nostre ed imponiamo il rispetto per il corpo delle donne che è la fonte della vita, non il mezzo per vendere dentifrici, aumentare l’audience, fomentare l’odio contro gli stranieri.

La donna è la vita, la sua bellezza, la sua tenerezza,il suo fascino se la sua essenza.

Difendiamola.

Vincenzo

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