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Tratto da http://www.tafter.it

(URL=http://www.tafter.it/2009/11/27/dal-“fattore-capriccio”-alla-“sindrome-lolita”-il-marketing-rivolto-ai-bambini/)

Un solo esempio basterà a chiarire questa opinione. In uno studio del 1998 sull’uso del capriccio nei bambini venivano date indicazioni non ai genitori per affrontare il fenomeno, bensì ai venditori perché sfruttassero tali dati ai fini del marketing.

Ulteriori ricerche arrivarono alla teorizzazione seguente: esisterebbero due categorie di capricci, il “capriccio di persistenza” e il “capriccio di importanza”. Il primo è quello tipico del bambino tradizionale, per cui la richiesta viene reiterata come una sorta di nenia fino a quando il genitore o si arrabbia o cede per esasperazione. Tuttavia è quello cui l’adulto riesce più facilmente a contrapporsi: all’ennesimo richiesta “Voglio la casa di Barbie”, spesso segue l’ennesimo “Ho detto di no”. Ma davanti al capriccio d’importanza del tipo: “Mamma, ho bisogno della Casa dei Sogni di Barbie così lei e Ken possono vivere insieme e avere bambini e una loro famiglia”, sembrerebbe molto più arduo opporsi. La rivista specializzata americana Selling to Kids raccomanda quindi di inserire all’interno della comunicazione pubblicitaria anche la motivazione legata all’acquisto del prodotto (1).

1. Il Neg factor

Il cosiddetto neg factor (“fattore assillo”), ossia il tormento che un bambino può infliggere ai genitori o parenti sotto forma di insistenze, capricci, paragoni con amichetti, e così via, al fine dell’acquisto di prodotti di varia natura, da quelli alimentari (spesso junk food) a quelli di abbigliamento, passando ovviamente per gli articoli elettronici, è quindi oggi una vera e propria strategia di marketing in grado di mettere gravemente in crisi il rapporto genitori-figli.

Secondo la psicologa Susan Linn, autrice del libro Il marketing all’assalto dell’infanzia: come media, pubblicità e consumo stanno trasformando per sempre il mondo dei bambini, staremmo assistendo ad una sorta di attacco all’unità familiare, grazie a strategie di marketing sempre più aggressive rivolte ad un target sempre più giovane, secondo l’ormai noto imperativo del cradle to grave, cioè “dalla culla alla tomba”. E’ il discorso – da tempo caro ai pubblicitari – della “fidelizzazione”: prima si inizia a legare il consumatore al brand, meglio è. Solo che ultimamente il “prima possibile” si sta traducendo in marketing rivolto ai minori di due anni. Negli Stati Uniti il 60% dei bambini dai 0 ai 2 anni guarda la televisione per oltre 90 minuti al giorno. Il fenomeno è talmente allarmante che l’”Accademia Americana di Pediatria” (AAP) ha dovuto raccomandare ai genitori di non esporre alla TV i bambini di questa fascia d’età. Eppure questa semplice indicazione di buon senso sembra indignare i pubblicitari (e le aziende), che seguendo Ken Viselman, ideatore di Teletubbies, affermano semplicemente che è giusto offrire servizi adeguati ad un

pubblico di giovanissimi, normalmente “poco servito” (2). (Nel caso di Teletubbies, ciò significherebbe che esiste un bisogno insoddisfatto del lattante di guardare la TV..?)

Tutti gli studi di psicologia evolutiva relativi alla fruizione dei media concordano nell’affermare che i bambini già a partire dal primo anno di età sono in grado di reagire a emozioni positive e negative espresse in televisione.

Fino ai cinque anni però, hanno serie difficoltà a distinguere tra programmazione e spot, e solo dagli otto anni in su riescono a capire come la comunicazione pubblicitaria abbia un fine persuasivo, ossia quello di convincere il maggior numero di spettatori possibili a consumare determinati prodotti per incrementarne le vendite. I pubblicitari,

tuttavia, hanno ragione nel sostenere che i bambini sin da piccolissimi siano in grado di riconoscere le marche: da tempo il posizionamento di alcuni articoli sugli scaffali dei supermercati contempla il fattore ”altezza bambino”, cioè la collocazione del prodotto riferita alla “portata di mano” di un bambino seduto sul seggiolino del carrello. Ma, ovviamente, il fatto che i bambini riconoscano i packaging o i loghi perché li hanno visti in TV non significa certo che siano “smaliziati” davanti a messaggi pubblicitari e soprattutto che ciò ne legittimi un marketing specifico così

aggressivo. Non a caso dal punto di vista psicologico e sociologico la categoria rientra nella “vulnerable population”.

2. La Kidfluence

Il marketing è sempre stato molto attento ai mutamenti sociali della famiglia. Negli anni Ottanta, le famiglie americane a doppio reddito avevano creato indirettamente e loro malgrado un nuovo target, i latchkey kids (i bambini che hanno le chiavi di casa perché entrambi i genitori lavorano), dando l’opportunità ai pubblicitari di esercitare la propria influenza su una segmento non trascurabile della popolazione infantile, certo la più debole per la mancanza di supervisione da parte dell’adulto.

Oggi, nell’epoca dei figli di divorziati, il bambino (spesso unico e spesso solo davanti alla tv e al computer perché semplicemente li ha in camera) assume un ulteriore ruolo: si fa interlocutore competente, all’interno della nuova coppia, in materia di consumi. In altri termini, il bambino partecipa sempre più attivamente alle decisioni di acquisto familiari: ad esempio, pare che in America il neg factor “pesi” per oltre il 60% sull’acquisto di minivan o SUVs (3).

Martin Lindstrom, guru del marketing britannico, ci spiega come sia possibile che le nuove generazioni di tweens, ossia di ragazzini non più bambini ma non ancora adolescenti (da between, in assonanza con teen, fascia 6-12 anni) abbiano tutto questa influenza sulle decisioni d’acquisto familiari (da cui il neologismo kidfluence).

Innanzitutto questo è possibile per il fatto che ci troviamo di fronte a dei veri esperti in materia di marca, tanto da meritarsi l’appellativo di brand child (4); secondo, sono spesso molto più competenti dei loro genitori o parenti su nuove tecnologie e prodotti multimediali; terzo, sono i più informati sui nuovi prodotti perché sono loro i principali destinatari del fiume di messaggi veicolati quotidianamente dai media (circa 22.000 l’anno). Questo ha portato i creativi ad attuare un nuovo “stile comunicativo”, il dual messaging, soprattutto per la comunicazione commerciale di prodotti per la casa e la famiglia: circa l’80% dei messaggi sarebbero già strutturati a due livelli, uno diretto ad un target adulto e l’altro (meno evidente) rivolto ai tweens.

3. Age compression: la “sindrome Lolita”

Già da tempo i pubblicitari e gli strateghi del marketing si sono soffermati sul concetto di “cool”, che a differenza del più innocuo trendy, racchiude in sé un messaggio molto violento: il contrario di cool è, infatti, looser, cioè “perdente”. Gli adulti non sono cool. I cibi sani non sono cool. Essere cool “means having something that others don’t. It makes a child feel special and pushes him to seek the latest cool product” (5).

Oggi assistiamo ad una ulteriore evoluzione del termine: l’American Heritage College Dictionary ha definito nell’edizione del 2002 il termine edgy come “audace, provocatorio, che instaura una tendenza”, e questa qualità è attribuita dai pubblicitari a prodotti rivolto ai tweens, in particolare nel settore dell’abbigliamento e degli accessori. Sfruttando la naturale tendenza del bambino ad essere attratto da chi ha qualche anno più di lui (i tweens ammirano gli adolescenti, i teenagers i ventenni), non c’è da stupirsi se i bambini e le bambine di otto anni si atteggino come i loro fratelli maggiori, andando incontro alla cosiddetta “sindrome di Lolita” (6).

L’espressione age compression indica proprio il fatto che: “… prodotti o messaggi originariamente pensati per i più grandi vengono adattati ai più piccoli, offrendo così ai bambini prodotti e stili studiati per gli adolescenti […]. Al centro c’è il concetto di “aspirazione”: così come gli adolescenti sono aspiranti ventenni, gli undicenni sono aspiranti quindicenni” (Oliverio Ferraris 2008, 72).

La Mattel, come altre aziende di giocattoli, si è presto resa conto di questa compressione: oggi la già citata Barbie regge ancora sul mercato ma con la differenza che, mentre prima il target era rappresentato dalle bambine della scuola primaria, oggi la bambola dai fianchi stretti e dal corpo sinuoso vede “restringersi” il campo all’età prescolare. E, come per altre aziende di giocattoli, ciò ha determinato un cambio di strategia: primo, per i giocattoli tradizionali, rendere ancora più intenso il battage poiché il target si è ridotto alla fascia 0-5 anni; secondo,

immettere sul mercato nuovi giocattoli per la fascia tweens, ma con alcuni accorgimenti. Per la Mattel, per esempio, si è trattato di copiare le bambole di un’azienda emergente che aveva incominciato a produrre le Bratz, bambole sempre all’ultima moda e sexy, con l’hobby più dello shopping che del tennis (attività tipica della Barbie). L’ultima versione della Barbie non ebbe lo stesso successo delle Bratz, le quali però vivono oggi un ulteriore restringimento del mercato: sembra che siano effettivamente le preferite dai tweens, ma solo fino ai sette anni.

A partire dagli otto anni l’interesse è rivolto ad altro, ai capi di abbigliamento e agli accessori copiati dalle star della musica leggera o dai personaggi dei telefilm per adolescenti: “se la ragazzina imita le pop star, i personaggi televisivi e le sorelle maggiori, significa che vorrà sfoggiare lo stesso look vivace dei suoi idoli” (7). Anche il settore musicale ha scoperto questa tendenza: basti pensare al fatto che sono proprio le “cantanti Lolite” come Britney Spears o Christina Aguilera ad essere maggiormente presenti sui canali dedicati ai bambini, quali Nickelodeon, Disney Channel, Fox Family…

4. Ritorno al villaggio?

Le seduzioni che arrivano da ogni dove stanno creando ansie e senso di impotenza ai genitori, tra l’altro vessati da messaggi pubblicitari che tendono a minarne l’immagine e a ridicolizzarne il ruolo.

Secondo la psicoterapeuta dell’età evolutiva Anna Oliverio Ferraris, la comunicazione pubblicitaria inculca al bambino in maniera sempre più raffinata l’idea che i prodotti pubblicitari sono proprio “per lui”, e quindi che un genitore che non compra quei prodotti è davvero “cattivo” perché non viene incontro a richieste più che legittime. In questo modo la pubblicità è in grado di determinare uno stato di insicurezza e infelicità nel bambino che non possiede quel dato prodotto. Si tratta di un meccanismo ben conosciuto, che però fino a poco tempo fa attribuivamo

esclusivamente al (pre)adolescente, e che oggi colpisce anche le fasce d’età più precoci. Ecco che il mancato possesso dello status-symbol del momento può creare una “vera e propria ferita narcisistica” anche nel bambino più piccolo.

Davanti a questa situazione, lo scontro genitori – media assume le sembianze di una lotta impari. E’ vero che il fenomeno della mentalità materialistica non è nuova, avendo colpito più di una generazione almeno a partire dal secondo dopoguerra, ma ciò cui si sta assistendo in questo ultimo decennio effettivamente non ha precedenti. La pervasività dei nuovi media e l’aggressività dell’advertising, l’accesso libero a messaggi d’ogni tipo fin dalla tenera età, gli scambi di informazioni facilitati dall’elettronica, le nuove forme di interazione online stanno sicuramente sopraffacendo le classiche agenzie formative e di socializzazione spesso già indebolite per una loro evoluzione interna: famiglia, scuola, associazionismo.

In questi ultimi anni si stanno non a caso sviluppando corsi di coaching per genitori, occasione di incontro e sostegno reciproco che faccia sentire l’adulto meno solo di

fronte a questo problema8. La cosa interessante dal punto di vista sociologico è che si sta affermando un paradigma che sembrava ormai sorpassato, e cioè la consapevolezza che l’educazione delle nuove generazioni sia una responsabilità sociale e non più individuale, cui devono concorrere tutte le agenzie educative, congiuntamente. Davanti al rimpallo di responsabilità cui stiamo assistendo oggi tra famiglia, scuola, istituzioni e media, l’unica via d’uscita sembrerebbe proprio quella di lavorare insieme affinché si possano inoculare nei giovani e giovanissimi i necessari “anticorpi” in grado di farli uscire dal “narcisistico torpore” preconizzato da McLuhan, e al quale – è bene ricordare – non sfuggono nemmeno gli adulti.

BIBLIOGRAFIA:

Bartel Sheehan, Kim, Controversies in contemporary advertising, SAGE 2003 Del Vecchio, Gene, Creating Ever-Cool: A Marketer’s Guide to a Kid’s Heart, Pelican Publishing 1997

Lindstrom, Martin, Brand Child. Remarkable Insights Into The Minds Of Today’s Global Kids And Their Relationships With Brands, Kogan Page, 2005

Linn, Susan (2004), Il marketing all’assalto dell’infanzia. Come media, pubblicità e consumo stanno trasformando per sempre il mondo dei bambini, Orme, Milano 2005

McLuhan, Marshall (1964), Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 2008

Oliverio, Luca (2005), Tra influenza, pubblicità e marketing… un dialogo con la dottoressa Oliverio Ferraris in http://www.comunitazione.it

Oliverio Ferraris, Anna, La sindrome Lolita. Perché i nostri figli crescono troppo in fretta, Rizzoli Milano 2008

Querzé, Rita, Figli difficili da allevare genitori a lezione dal coach, Repubblica, 08 novembre 2008

Note:

(1) Amy Frazier, Market Research: The Old Nagging Game Can Pay Off for Marketers”, Selling to Kids 3 (8), 15 aprile 1998; cit. in Linn (2004).

(2) “PBS Partners with Ragdoll Production and the Itsy Bitsy Company to Air Innovative Preschool Series Teletubbies”, disponibile su pbs.org.

(3) Bartel Sheehan (2003).

(4) Lindstrom (2005).

(5) Del Vecchio (1997).

(6) Oliverio Ferraris (2008).

(7) Greenberg et al., “What the Girl Like and Want”, cit. in Linn (2008).

(8) Querzé (2008).

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Tratto da Avvenire.it

di Tiziana Lupi

(URL =http://www.avvenire.it/Spettacoli/L+UPI_200907290700006300000.htm)

Questa televisione non s’ha da fare. A pochi giorni dall’avvio ufficiale di BabyTv, il grido di allarme si è già levato forte e chiaro. Perché il canale in questione, targato Fox e disponibile al numero 620 di Sky da sabato 1 agosto, si rivolge ad una platea a dir poco particolare: quella di neonati e bambini sotto i tre anni. Il lancio del canale ha, per Sky, un valore altamente strategico visto che, in previsione del mancato rinnovo dell’accordo con RaiSat, BabyTV andrebbe a sostituire il già disponibile RaiSat Yoyo.

Ma le strategie televisive importano poco a chi, da tempo, cerca di tutelare i bambini e non è affatto convinto che basti una programmazione «studiata da esperti e completamente priva di pub- blicità» a rendere innocuo un progetto che tanto innocuo non è. Elisabetta Scala, presidente nazionale del Moige ieri ha chiesto che Sky blocchi il lancio di BabyTv e che «le Istituzioni prendano idonei provvedimenti». Per la Scala «non si discute sui contenuti che andranno in onda.

Però vogliamo richiamare l’attenzione sui gravi rischi inerenti la crescita fisica e psicologica di neonati e bambini fino ai 36 mesi». Non a caso, riferisce ancora la Scala, a fronte di studi sui «danni che può provocare in bambini così piccoli l’esposizione alla televisione», l’Autorità per le Comunicazioni francese ha imposto il seguente messaggio: «Guardare la televisione può frenare lo sviluppo dei bambini minori di tre anni, causare ritardi psicomotori, incoraggiare la passività, causare sovreccitazione e turbe del sonno». Ma cos’è BabyTv? Il canale è nato nel 2003 in Israele, è già presente in oltre cento Paesi del mondo e, come spiega il comunicato stampa, «offre una programmazione innovativa che utilizza il mezzo televisivo per favorire nel bambino l’apprendimento e la consapevolezza di sé». Inoltre, «BabyTv è anche un sito internet con giochi formativi da fare insieme, come quiz, puzzle e attività interattive».

È questo, forse, che fa dire ad Antonio Marziale, presidente dell’osservatorio sui diritti dei Minori e consulente della commissione parlamentare per l’infanzia : «Non sono contrario a Baby Tv, ma è fondamentale che i contenuti siano mi­nuziosamente controllati da esperti prima della messa in onda». Come e più di lui, la sociologa Marina D’Amato, componente del Consiglio Nazionale degli Utenti (che però è assolutamente contrario al progetto BabyTv), per la quale il canale «si pone come un accompagnamento alla crescita, stimolando curiosità e interesse da parte dei piccoli. Uno svago non passivo e senza pubblicità».

A difendere BabyTV, naturalmente, c’è anche Sherin Salvetti di Fox Channels Italy che però, mentre assicura che «l’obiettivo di BabyTV non è quello diventare una baby sitter ma quello di offrire un nuovo spunto di interazione tra genitori e figli», dimentica di citare le ultime righe del comunicato stampa. Che recitano testualmente: «Come in altri Paesi, anche in Italia il marchio BabyTV sarà presto presente nei negozi specializzati proponendo prodotti per l’infanzia». Insomma, come sempre, da piccoli spettatori a piccoli (grandi) consumatori.

Tratto da Avvenire.it

di Tiziana Lupi

(URL =http://www.avvenire.it/Spettacoli/L+UPI_200907290700006300000.htm)

Questa televisione non s’ha da fare. A pochi giorni dall’avvio ufficiale di BabyTv, il grido di allarme si è già levato forte e chiaro. Perché il canale in questione, targato Fox e disponibile al numero 620 di Sky da sabato 1 agosto, si rivolge ad una platea a dir poco particolare: quella di neonati e bambini sotto i tre anni. Il lancio del canale ha, per Sky, un valore altamente strategico visto che, in previsione del mancato rinnovo dell’accordo con RaiSat, BabyTV andrebbe a sostituire il già disponibile RaiSat Yoyo.

Ma le strategie televisive importano poco a chi, da tempo, cerca di tutelare i bambini e non è affatto convinto che basti una programmazione «studiata da esperti e completamente priva di pub- blicità» a rendere innocuo un progetto che tanto innocuo non è. Elisabetta Scala, presidente nazionale del Moige ieri ha chiesto che Sky blocchi il lancio di BabyTv e che «le Istituzioni prendano idonei provvedimenti». Per la Scala «non si discute sui contenuti che andranno in onda.

Però vogliamo richiamare l’attenzione sui gravi rischi inerenti la crescita fisica e psicologica di neonati e bambini fino ai 36 mesi». Non a caso, riferisce ancora la Scala, a fronte di studi sui «danni che può provocare in bambini così piccoli l’esposizione alla televisione», l’Autorità per le Comunicazioni francese ha imposto il seguente messaggio: «Guardare la televisione può frenare lo sviluppo dei bambini minori di tre anni, causare ritardi psicomotori, incoraggiare la passività, causare sovreccitazione e turbe del sonno». Ma cos’è BabyTv? Il canale è nato nel 2003 in Israele, è già presente in oltre cento Paesi del mondo e, come spiega il comunicato stampa, «offre una programmazione innovativa che utilizza il mezzo televisivo per favorire nel bambino l’apprendimento e la consapevolezza di sé». Inoltre, «BabyTv è anche un sito internet con giochi formativi da fare insieme, come quiz, puzzle e attività interattive».

È questo, forse, che fa dire ad Antonio Marziale, presidente dell’osservatorio sui diritti dei Minori e consulente della commissione parlamentare per l’infanzia : «Non sono contrario a Baby Tv, ma è fondamentale che i contenuti siano mi­nuziosamente controllati da esperti prima della messa in onda». Come e più di lui, la sociologa Marina D’Amato, componente del Consiglio Nazionale degli Utenti (che però è assolutamente contrario al progetto BabyTv), per la quale il canale «si pone come un accompagnamento alla crescita, stimolando curiosità e interesse da parte dei piccoli. Uno svago non passivo e senza pubblicità».

A difendere BabyTV, naturalmente, c’è anche Sherin Salvetti di Fox Channels Italy che però, mentre assicura che «l’obiettivo di BabyTV non è quello diventare una baby sitter ma quello di offrire un nuovo spunto di interazione tra genitori e figli», dimentica di citare le ultime righe del comunicato stampa. Che recitano testualmente: «Come in altri Paesi, anche in Italia il marchio BabyTV sarà presto presente nei negozi specializzati proponendo prodotti per l’infanzia». Insomma, come sempre, da piccoli spettatori a piccoli (grandi) consumatori.

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Intervista a A. O.Ferraris

(URL=http://www.mediamente.rai.it/HOME/bibliote/intervis/f/ferraris.htm)

Rispetto alle generazioni precedenti, i bambini di oggi nascono con il televisore dentro casa, e quindi si abituano molto precocemente, prima ancora che ai programmi televisivi, proprio all’oggetto televisore, da cui sono molto attratti. Da alcuni bambini, la televisione viene percepita quasi come una persona. Quando poi non si ha la possibilità di fare altre esperienze, la tv può diventare un amico con cui trascorrere il pomeriggio (1).

Il bambino guarda la tv non solo per divertirsi, ma soprattutto per farsi un immagine del mondo degli adulti. E però, fino ai sei sette anni, non è ben attrezzato per comprendere appieno ciò che guarda (2).

La pubblicità – per il suo ottimismo, per la sua concisione e per la sua ripetitività – è il programma che più influisce sul comportamento dei bambini (3).

Guardare troppa tv può indurre ad una vera e propria “mutazione antropologica” nei bambini, abituandoli ad utilizzare prevalentemente il senso della vista a scapito degli altri e a rimanere in un atteggiamento sostanzialmente passivo rispetto ai messaggi emessi (4).

Per ovviare a tutto questo, i genitori invece di lasciare da soli i bambini davanti allo schermo, dovrebbero operare delle selezioni sulla programmazione, e aiutare i propri figli nella comprensione di ciò che vedono. La stessa scuola può far molto per insegnare a non subire passivamente il mezzo televisivo. Ma soprattutto bisognerebbe non sacrificare i giochi all’aperto, per l’indispensabile esperienza di autonomia e di libertà che essi forniscono ai bambini (5).

INTERVISTA:

Domanda 1

Professoressa Oliverio, nel suo libro “TV per un figlio”, lei inquadra il problema del rapporto fra televisione e infanzia, all’interno del contesto quotidiano: la televisione sembra acquisire il ruolo di amico, di compagno.

Risposta

C’è una grossa differenza tra le generazioni precedenti, che sono cresciute senza televisione, che l’hanno trovata solo dopo nella loro vita, rispetto ai bambini di oggi, che invece già nascono con il televisore dentro casa, e quindi si abituano molto precocemente, prima ancora che ai programmi televisivi, proprio all’oggetto televisore, da cui sono molto attratti. Anche i bambini di pochi mesi di vita sono attratti da queste immagini che si muovono sullo schermo, e possono quasi affezionarsi all’oggetto televisore, prima ancora di capire che cosa rappresentino le immagini. Da alcuni bambini viene percepita quasi come una persona, perché parla, perché si vedono delle persone all’interno. Quando poi non hanno la possibilità di fare altre esperienze, possono considerarla anche un amico che gli fa trascorrere il pomeriggio. Però, in genere, la considerano una soluzione minore, perché preferirebbero giocare all’aperto con gli altri bambini della loro età. A volte dicono: “Non ho niente da fare e quindi guardo la televisione”. I bambini mi danno delle risposte molto belle, molto significative, quando chiedo loro: “Che cos’è la televisione per te?”. Direi che la più divertente, forse proprio la più significativa, è stata quella di un bambino di sette anni, che mi ha detto: “E’ una cosa che non ti fa sudare e le mamme sono più contente quando non si suda”. Perché spesso viene usata come una baby-sitter, che tiene buono il bambino, lo tiene fermo, quando in realtà per tutta la prima e la seconda infanzia bisognerebbe muoversi, far chiasso, scatenarsi un po’, fare delle esperienze di libertà, quelle normali esperienze di libertà che fanno i bambini giocando tra di loro.

Domanda 2

Parliamo degli effetti della televisione sui bambini.

Risposta

Bisogna tenere presente che il modo con cui un bambino guarda la televisione è diverso dal modo con cui la guarda un adulto. Un adulto spesso si mette di fronte al televisore solo per divertirsi, per rilassarsi, mentre un bambino vuole anche farsi un’immagine del mondo. Ecco, i bambini guardano la televisione per farsi un’immagine del mondo degli adulti. Da sempre i bambini cercano di capire com’è il mondo degli adulti. Oggi c’è la televisione dentro casa, viene data molta importanza a questo mezzo di comunicazione, anche gli adulti la guardano e quindi il bambino la guarda per capire come deve comportarsi. Per lui quello che viene dalla televisione è positivo, anche perché è associato al clima positivo della casa, della famiglia, e spesso può prendere alla lettera quello che vede. L’età, in tal senso, è un fattore estremamente importante. Un bambino di quattro o cinque anni incomincia a capire qualcosa sulla differenza tra vero e falso, però continua a confondersi ancora fin verso i sei, sette anni, a seconda del tipo di programma. Ma la cosa più difficile da comprendere è, per esempio, la diversità tra vero e verosimile. Non tutto quello che è verosimile è vero. E poi i tempi di attenzione di un bambino piccolo sono brevi, quindi spesso non è in grado di seguire il filo conduttore, la trama di una vicenda, e quindi magari non collega il finale moralistico della storia con il resto: di una storia gli possono rimanere impresse soltanto le immagini più forti, quelle che l’hanno colpito, che hanno un valore emotivo particolare.

Domanda 3

Lei ha detto che i bambini guardano la televisione per farsi un’immagine del mondo. Talvolta da questo ne discende un comportamento. Ecco, quali sono i modelli comportamentali che i bambini assorbono più velocemente? E i genitori possono avere un ruolo nello stemperare o nell’indirizzare meglio questi modelli?

Risposta

I bambini guardano spesso anche i programmi rivolti agli adolescenti, cioè quei serial dove ci sono dei ragazzi un po’ più grandi di loro, proprio per ispirarsi a loro. Naturalmente guardano anche i programmi a loro rivolti. I “Power rangers”, ad esempio, hanno indotto tutto un diverso modo di fare la lotta, che già si vede nella Scuola Materna: bambini che appunto usano i calci, e così via. E poi molto apprendono dalla pubblicità. I bambini sono oggi bombardati dalla pubblicità, che si collega ai cartoni che vedono, agli spettacoli a loro dedicati. Ogni volta che esce un nuovo film – adesso c’è “Pocahontas” in circolazione – c’è un tale numero di oggetti, di gadget associati che vengono reclamizzati in televisione, che il bambino ne è come inseguito. Lo spot televisivo, del resto, è lo spettacolo preferito dai bambini fin verso i sei, sette anni, perché si adatta proprio alla loro mente. E’ breve, c’è un’avventura che interessa, spesso ci sono dei bambini – quelli indirizzati – e allora sono indotti ad identificarsi. Inoltre le situazioni sono sempre positive, e i bambini sono degli ottimisti. E poi ci sono degli slogan, che sono ripetuti nell’arco della giornata, e ai bambini piace la ripetizione, perché piace ritrovare le cose che già conoscono. Insomma, la pubblicità influisce molto su di loro, non soltanto per indurli all’acquisto di oggetti a loro diretti, ma anche per tutti i prodotti per la casa, e i pubblicitari lo sanno benissimo. Sanno che poi i bambini chiederanno ai genitori di comprare certi prodotti. E bisogna tener presente che questo non influisce soltanto sull’acquisto, ma anche sulla relazione tra genitori e figli, perché poi il genitore che non comprerebbe un certo prodotto, oppure l’ennesimo giocattolo perché il bambino ne ha già tanti, può anche entrare in crisi e sentirsi in colpa perché può pensare di farne un diverso rispetto agli altri bambini. E qui c’è tutta un’opera di educazione da fare. Certo, se la televisione aiutasse un po’ i genitori e gli insegnanti, se questi non dovessero sempre remare contro corrente, sarebbe più facile.

Domanda 4

Nel suo libro, lei parla di una “mutazione antropologica”. A che cosa fa riferimento?

Risposta

Al fatto che ci si abitua a un certo tipo di rappresentazione, che è quella delle immagini. Intanto viene molto valorizzata la vista, naturalmente. Il bambino si abitua fin da piccolo a fare attenzione agli stimoli visivi. Per intenderci, il non vedente, che è obbligato a fare affidamento su altri sensi, affina quegli altri sensi, non perché in partenza li avesse più sviluppati, ma proprio perché fa esercizio. Ecco, se il bambino guarda troppa televisione fin da piccolo, a scapito di altre esperienze, cioè dell’uso di altri sensi, c’è il rischio che poi la sua attenzione, anche il suo modo di memorizzare le informazioni, si basi troppo e soltanto sul dato visivo. Questo è un primo punto. Un secondo punto è dato dall’abitudine al linguaggio e ai tempi della televisione. Ora, i tempi sono diventati sempre più rapidi: per esempio, i vecchi cartoni animati di Walt Disney erano molto lenti, e quindi anche la mente dello spettatore poteva in qualche modo inserirsi, poi sono diventati velocissimi, non c’è più molto tempo per riflettere. Ci si abitua a captare una serie di messaggi prefabbricati, dove l’apporto dello spettatore è minimo. Il pericolo è che i bambini sviluppino un’attitudine passiva di fronte al video. Possono diventare degli ottimi spettatori, farsi anche delle opinioni, però non si abituano a prendere delle iniziative. Su tutto noi dobbiamo fare esercizio, quando siamo bambini. Anche se vogliamo diventare bravi socialmente, dobbiamo fare delle esperienze fin dall’infanzia, interagire con altre persone, vivere in una realtà più complessa di quella televisiva, che poi è ad una via. Io non dico che la televisione sia negativa. E’ un mezzo bellissimo, con enorme potenzialità. Il discorso è che, siccome si diffonderanno sempre di più gli audiovisivi nel nostro mondo, dobbiamo tutti quanti imparare ad usarlo a nostro vantaggio e a vantaggio dei bambini, naturalmente. Anzi, bisogna che i bambini siano alfabetizzati in fatto di televisione: nelle elementari, nelle medie devono capire questo linguaggio, che è un linguaggio ricchissimo. Però devono portare avanti anche altri tipi di linguaggio. Per esempio, non perdere l’abitudine alla lettura. Nella lettura i tempi sono decisi dal lettore, si può tornare indietro, c’è più spazio per la fantasia, perché l’immagine definisce tutto, mentre nel libro non c’è questa immagine così incombente, quindi c’è più spazio per riflettere. Nel libro l’informazione avviene secondo una sequenza logica, mentre in televisione ci sono accostamenti analogici. Insomma, sono diversi modi di inviare messaggi e di comunicare.

Domanda 5

Quali tecniche si potrebbero sviluppare per insegnare ai bambini, ai ragazzi, a controllare meglio lo strumento televisivo?

Risposta

Intanto bisognerebbe arrivare a scegliere i programmi in base alla loro qualità, e non mettersi con un’attitudine passiva di fronte al televisore e vedere tutto quello che c’è. Bisognerebbe scegliere, valutare. Coi bambini bisognerebbe stabilire un tetto di ore per giorno, e non superarlo, a seconda poi dell’età dei bambini. Forse non bisognerebbe lasciare un televisore nella stanza dei bambini. Ho visto che un 43% dei bambini del mio campione romano ha un televisore nella stanza, ha l’uso libero del telecomando, e quindi può vedere tutto, può fare una specie di indigestione, e così anche trovarsi di fronte a messaggi che non è in grado di decodificare. Dobbiamo metterci dal loro punto di vista, insomma. Per noi certe cose sono scontate, abbiamo una lunga esperienza alle spalle, per loro è la prima volta e quindi possono avere delle difficoltà a orientarsi. I genitori dovrebbero un po’ vedere che cosa guardano i bambini, qualche volta stare accanto a loro per spiegare. E poi a scuola si potrebbe fare moltissimo. Per esempio, per quanto riguarda la pubblicità, si potrebbe fare tutto un lavoro di smontaggio, cioè mettersi dal punto di vista del pubblicitario. Ecco, è importante cambiare prospettiva: da spettatore diventare attore, diventare regista, diventare pubblicitario, quindi simulare la costruzione di uno spot, per capire anche come è complesso tutto il lavoro che c’è dietro ad un programma. Oppure si potrebbe insegnare ad andare a vedere qual è la vera qualità del prodotto, a leggere sulle etichette quello che è scritto molto piccolo, a ragionare. Si dovrebbe anche insegnare a dilazionare la gratificazione, perché se no i bambini sviluppano un’attitudine del “voglio tutto, subito”, perché sono abituati a queste gratificazioni: i programmi televisivi rivolti ai bambini sono brevi – c’è un inizio, uno sviluppo, una fine – e ogni finale rappresenta una gratificazione dal punto di vista psicologico. I bambini sono abituati ad essere serviti, ad avere tutto senza sforzo, e allora poi possono pretendere, nella vita, le stesse cose. E poi si può anche arrivare a fare dei video. Ci sono delle scuole che hanno dei laboratori televisivi, e lì i bambini possono fare un’esperienza molto ricca e complessa, che è quella del lavorare in gruppo per fare una sceneggiatura, fare una ricerca, fare le riprese, il montaggio, e così via. Insomma, bisognerebbe insegnare a diventare padroni del mezzo, a non subirlo, a gestirlo, insomma, visto che questo mezzo si diffonderà sempre più. Però bisogna che ci sia anche spazio per altre attività. Non bisogna sacrificare i giochi all’aperto, perché a quell’età sono molto importanti per l’esperienza di autonomia e di libertà che i bambini devono fare.

Tra influenza, pubblicità e marketing… un dialogo con la dottoressa Oliverio Ferraris

Tratto da Comunitàzione.it

(URL=http://www.comunitazione.it/leggi.asp?id_art=1645&id_area=143)

Il Fattore Assillo (Nag Factor) approda anche in Italia.

Tecnica subdola per la manipolazione di ‘tavolette di cera su cui incidere’, o più semplicemente una tecnica di marketing che tenta di imporre il volere dei figli sui genitori?

Il Nag factor è una tecnica introdotta da psicologi dell’età evolutiva, e noi per fare un po’ di chiarezza,

conoscere meglio la tecnica, e conoscendola magari anche imparare a difendersene, abbiamo deciso di contattare la maggiore esperta dei processi evolutivi in Italia, la dottoressa Anna Oliverio Ferraris.

Mi scuso in anticipo se le mie domande saranno lunghe, ma più che un intervista abbiamo deciso di fare una chiacchierata sull’argomento.

Dottoressa Ferraris, bentornata. Sono contento di rivederla. Rompiamo il ghiaccio con una domanda diretta: psicologia e pubblicità è un connubio non nuovo. I padri del comportamentismo americano si erano già dedicati all’argomento. Se la memoria non mi inganna Watson e il suo allievo Walter Dill Scott furono, prima incaricati di eseguire studi sull’efficacia delle campagne di comunicazione, e successivamente Watson ricevette dalla J.W. Thompson l’incarico di creare campagne di comunicazione per dentifrici e borotalco; agli studi di Watson dobbiamo l’attenzione al brand, e il concetto stesso di lealtà nei confronti del brand, così come l’uso dei testimonial nelle campagne pubblicitarie.

Sembra dunque che il nostro pubblico sia influenzabile. Ma questo è vero sempre, o solo quando il pubblico non ha le armi (culturali o dovute all’esperienza) per difendersi?

In linea di massima tutti siamo influenzabili, quando ci abbandoniamo al ‘flusso’ (d’altro canto è difficile stare costantemente all’erta…). Ovviamente le persone dotate di senso critico, con esperienza e una vasta cultura, abituate e riflettere e ragionare, lo sono molto di meno e sono in grado di difendersi. Viviamo però, tutti quanti, sotto un bombardamento costante di stimoli, molti dei quali intendono indirizzarci verso acquisti, mode ed opinioni prefabbricate (anche politiche e religiose) nel modo più rapido possibile: l’obiettivo dei ‘manipolatori’ di professione non è convincere sulla base di validi motivi (per esempio la qualità intrinseca di un prodotto, la sua effettiva utilità ecc.), che richiederebbe troppo tempo specialmente nella cosiddetta società di massa; ma condizionarci facendo appello alle nostre emozioni, facendoci sentire inadeguati o esclusi, inculcandoci delle insicurezze o anche, più semplicemente, creando intorno a quel prodotto (a quell’opinione, comportamento, pseudo-evento, personaggio ecc.) un clima di simpatia, di allegria e/o di condivisione.

Ci può spiegare come funziona il nag factor a livello psicologico? Quali sono le leve, i meccanicmi che va a smuovere e mobilitare?

Per nag factor si intende il ‘tormento’ (richieste insistenti, capricci, paragoni con gli altri bambini…) che un bambino ben condizionato dalla pubblicità dà ai suoi genitori, nonni, zii ecc. affinchè acquistino per lui un determinato prodotto, gli consentano di vestire e comportarsi in un certo modo, di mangiare determinati alimenti, compresi i cosiddetti cibi spazzatura che rendono obesi e danneggiano l’organismo, ma su cui le grandi compagnie spendono per la pubblicità cifre da capogiro.

Una campagna pubblicitaria ben congeniata può mettere in crisi il rapporto genitore-bambino: il piccolo a cui si dice che una serie di prodotti sono ‘per lui’, considera ‘cattivo’ l’adulto che non soddisfa le sue ‘legittime’ richieste. Se il messaggio che proviene dai media contrasta apertamente con la volontà dei genitori, questi dovranno fare un lavoro supplementare per convincere i figli a seguire la loro linea educativa; in caso contario ad avere la meglio saranno i messaggi pubblicitari, nuovi educatori di molti bambini contemporanei.

Chi ha come target i bambini – dai 2 anni in su e a volte anche di età inferiore – si preoccupa di ‘fidelizzarli’ al prodotto, alla marca (brand) il più presto possibile e per ottenere questo mette a punto stretegie volte a manipolare le loro emozioni: per esempio, l’attaccamento che i bambini di età prescolare sviluppano nei confronti degli oggetti con cui vengono in contatto, le persone e i personaggi (compresi quelli che compaiono sugli schermi) che incontrano quotidianamente. L’obiettivo è infatti triplice: renderli insistenti nella richiesta di determinati prodotti indirizzati a loro (nag factor); ottenere che con le loro richieste influenzino gli acquisti degli adulti (non solo cibi e giocattoli ma anche prodotti per la casa, auto, telefonini ecc.); fidelizzarli, appunto, ad una marca, una confezione, uno slogan che acquisisce, per il piccolo consumatore, una risonanza emotiva che, nelle intenzioni dei pubblicitari, dovrebbe accompagnarlo anche negli anni successivi, così da renderlo dipendente da quel determinato prodotto per molti anni ancora… L’immagine del prodotto, di per sé, dovrebbe evocare senzazioni gradevoli, protezione, affetto, sicurezza oppure avventura, curiosità, autonomia.

Per ottenere questo triplice risultato, le grandi compagnie internazionali hanno ingaggiato psicologi che, attratti da lauti guadagni e a conoscenza dei bisogni fondamentali dei bambini e dei moti del loro inconscio, mettono le loro conoscenze a disposizione dei pubblicitari: questi ultimi, collaborando con gli psicologi (e anche con sociologi ed esperti di comunicazione), mettono poi a punto strategie che variano in rapporto all’età del ‘target’ e alle caratteristiche del prodotto.

Con i più piccini funzionano gli animali, i movimenti lenti (che annoiano gli adulti), i colori, i ritmi musicali, le rime semplici e orecchiabili (jingle), piccole vicende di vita quotidiana e naturalmente le confezioni (p. es. degli alimenti) rappresentano un aspetto primario: se l’obiettivo è condizionare (non convincere), la qualità del prodotto è irrilevante rispetto alla confezione.

Altre tecniche -variabili con l’età – sono le collezioni di giocattoli o figurine che vengono ‘regalati’ con il prodotto, i cibi modellati (forme di animali e personaggi dei fumetti) e colorati artificialmente, l’abbinamento con personaggi dei cartoni.

Con i più grandi funzionano le star del calcio, del cinema e della musica pop. A questo proposito è importante ricordare che il senso critico, anche quando è sviluppato, non sempre ha la meglio sulle emozioni e i desideri. Per esempio, un ragazzino di undici-quattordici anni può essere ormai del tutto consapevole della finalità persuasiva e manipolatoria della pubblicità che oggi va per la maggiore, ciononostante può cedere ugualmente al fascino del suo eroe del calcio e desiderare le scarpe che l’ ‘eroe’ reclamizza in tv…

Ci sono anche tecniche più subdole che mirano a ‘inoculare’, nella mente di bambini e ragazzi, insicurezza e insoddisfazione nel caso in cui non riescano a venire in possesso di un determinato prodotto; a volte la frustrazione può creare una vera e propria ferita narcisistica se altri bambini o ragazzi sono invece in possesso dello status simbol del momento, se sono più belli, più fortunati ecc. C’è per molti lo sconfortante confronto tra la propria vita, il proprio ambiente familiare e quello invece gioioso e brillante in cui si muovono i protagonisti degli spot, coetanei degli spettatori.

Infine, la pioggia di pubblicità cui sono sottoposti i bambini ha anche l’effetto di promuovere, inconsapevolmente, giorno dopo giorno, esposizione dopo esposizione, una mentalità materialistica: valori, felicità, rapporti personali sono tutti legati al possesso di qualcosa e se non si possiedono i prodotti di moda in quel momento ci si sente inquieti, infelici, incompleti…

A me i conti non tornano. Un imprenditore che si rivolge al mercato deve conoscere i desideri dei consumatori, quindi fornirgli i beni necessari. A volte i consumatori hanno ‘voglia di qualcosa di buono’ ma non sanno dargli un nome, così un imprenditore crea un ‘Roché’. Tutto questo mi sembra andare incontro alle esigenze dei consumatori, niente di più lucrativo e al tempo stesso etico, perché tendente alla soddisfazione di un bisogno. Dove avviene il corto circuito?

Anche se spesso è difficile fare una distinzione netta, alcuni bisogni sono autentici, altri invece sono indotti artificialmente oppure gonfiati e stravolti. Un esempio. Oggi tra i preadolescenti e i bambini ‘va di moda’ il wrestling, una lotta spettacolo che proviene dagli USA e che in Italia è arrivata accompagnata da un gran battage pubblicitario e da una serie di gadget (figurine, pupazzetti, costumi…). Ora, è un bisogno dei bambini fare la lotta. Da sempre, a partire dai quattro-cinque anni ai bambini piace lottare per gioco. Giocano i maschi e giocano anche le femmine. E’ una attività che fanno anche i cuccioli di altri mammiferi. C’è il piacere del contatto fisico, c’è improvvisazione, c’è apprendimento (si capisce fin dove ci si può spingere, quando fa male…), c’è divertimento e c’è anche comunicazione. Tutt’altra cosa è invece il wrestling, che non è una lotta spontanea nè una lotta vera e propria ma fiction, ossia una rappresentazione della lotta che può dare l’impressione di essere innocua, quando invece i colpi che i lottatori si scambiano (per finta e grazie a un lungo allenamento), se ripetuti tali e quali nella realtà e senza un pavimento elastico su cui cadere e rimbalzare, potrebbero essere micidiali. Quindi, i nostri bambini non avevano ‘bisogno’ del wrestling, il wrestling è stato introdotto da chi aveva interesse a diffonderlo e ora viene spacciato per un ‘bisogno’ dei bambini, i quali amano la lotta…

Sotto accusa cadono i focus group e il viral marketing. Tecniche invasive per la coscienza? Cosa avviene nella mente di un bambino?

Un bambino ha una visione ottimistica della pubblicità. Così come ottimistico e fiducioso è il suo rapporto con gli adulti. Prende alla lettera le informazioni. Non pensa che lo si voglia ingannare o strumentalizzare. Ed è giusto che sia così. Anche quando distingue gli spot da altri programmi o capisce che la pubblicità serve per vendere, pensa ai ‘consigli per gli acquisti’, non a condizionamenti o a sottile tecniche di persuasione. D’altro canto, sono molti gli adulti che pensano allo stesso modo e seguono diligentemente i ‘consigli’.

E’ nota la distinzione tra pubblicità informativa (es. le pubblicità progresso), che si limita ad informare sulle caratteristiche dei prodotti e fornisce al consumatore gli elementi per poter giudicare e pubblicità persuasiva che invece intende influenzare e sedurre affiancando alla marca e al prodotto stimoli che non c’entrano nulla con le caratteristiche del prodotto. Si punta alle emozioni, si creano delle suggestioni, dei climi, delle atmosfere… Le stesse tecniche, com’è noto, sono ampiamente usate anche nella campagne politiche: il viso rassicurante o ridente del candidato, oppure lo slogan accattivante che si imprime nella memoria, vale, per l’elettore ingenuo, più del programma elettorale. Ovviamente, non tutti siamo elettori ingenui…

Per quale motivo è pericolo il nag factor?

Incrina il rapporto genitori-figli. Toglie autorevolezza e anche sicurezza ai genitori nel momento in cui – per stanchezza, sensi di colpa, timore che il proprio figlio possa sentirsi discriminato o inferiore ai compagni – cedono a richieste a cui non avrebbero voluto cedere.

I bambini si abituano a gratificarsi con l’acquisizione di oggetti oppure ingerendo quei cibi colorati che vedono reclamizzati dapertutto (l’obesità infantile è molto diffusa negli USA e si sta diffondendo anche da noi come in altri paesi). I bambini crescono guidati da tecniche comportamentiste che li condizionano e li modellano. Se l’azione educativa di genitori, insegnanti ecc. non è sufficientemente incisiva, essi rischiano di crescere del tutto eterodiretti e di non sviluppare degli spazi interiori di riflessione, ragionamento e anche di ascolto dei propri stati psichici e fisici. Per quanto riguarda i prodotti alimentari, per esempio, i bambini che imparano a mangiare in risposta a stimoli esterni e non in base ai segnali di fame o di sazietà provenienti dal proprio stomaco, rischiano di perdere il contatto con il proprio corpo, come accade agli obesi.

Mi perdoni, ci cado sempre, ma credo sia il tema più importante: se i bambini vogliono omologarsi agli altri bambini… c’è un forte problema di identità che si tramuta in identificazione?

L’omologazione può dare sicurezza, l’Io dei bambini e dei ragazzi è in trasformazione ed è comprensibile e naturale che si appoggi al Noi del gruppo dei coetanei o al Noi generazionale proposto da altre entità come media, musica giovanile, mode (piercing, tatuaggi ecc.). Non bisognerebbe però mai rinunciare a coltivare anche l’Io individuale, perchè bisogna anche saper scegliere, saper dire ‘si’ e ‘no’ a ragion veduta e non solo per compiacere il gruppo ed essere in sintonia con la maggioranza. Il conformismo diffuso è squallido e deprimente. Ammazza la creatività e non consente ad una comunità di evolvere. C’è bisogno di persone che sappiano pensare con la propria testa e possiedano il coraggio per opporsi quando è necessario; ma questo è frutto di un lungo processo educativo … ci vogliono i buoni maestri.

In un suo testo leggo: ‘Nel contesto socio-culturale di questi anni l’individuo – immerso in un flusso euforizzante di sensazioni e modelli di identità diversi – vive una sorta di dilatazione dell’Io che potenzia il desiderio ma indebolisce l’identità.’

C’è questo rischio che, tra l’altro, dà un’impressione di onnipotenza che alla prova dei fatti può riservare cocenti delusioni. Sembra di potere tutto, di avere diritto a tutto, di doversi concere tutto e, arrivati alle soglie della giovinezza, si ha paura di scegliere, di imprimere una direzionalità alla propria vita perchè ciò significherebbe chiudersi delle porte alle spalle, precludersi delle possibilità… Si tratta di una condizione che è normale nel corso dell’adolescenza (Erik Erickson parla di ‘moratoria’, di sospensione temporanea dell’identità individuale), può diventare però un impedimento in seguito.

E poi c’è la comunicazione. Si torna al problema della TV. E quindi torna un tema che abbiamo già trattato nella nostra precedente ‘chiacchierata’1. E abbiamo già detto che i genitori dovrebbero ‘socializzare’ la televisione, come un normale agente della vita quotidiana. E oggi sottoaccusa viene anche messo il westriling che mediaset vorrebbe portare nel prime time… Mi sà che mi sto incasinando le idee. Con calma riprendiamo le redini. I genitori cosa possono fare? come difendere i propri figli?

Sono sempre più convinta della necessità di ‘scuole per genitori’ (non la scuola classica ma gruppi di incontro e di discussione), nel senso che i genitori di oggi dovrebbero riflettere di più sui principi educativi da adottare con i bambini e i ragazzi di questa nostra epoca. Nel giro di pochi decenni ci sono state enormi trasformazioni nello stile di vita sociale, familiare, individuale e di coppia. La scuola è in crisi e televisione e play station occupano uno spazio eccessivo nell’arco della gioranta. La televisione è dominata, oggi, da una logica commerciale e i buoni programmi non sono numerosi. Bisogna comprendere quali sono i reali bisogni di crescita di bambini e ragazzi e contrastare forme di dipendenza precoce che passivizzano, non abituano a lottare, iperproteggono (oppure trascurano, abbandonano) e quindi non preparano a sufficienza alla vita che verrà.

La ringrazio per la cortesia e l’attenzione che ci ha voluto prestare. Questa chiacchierata non voleva essere esaustiva, ma uno spunto per gli altri ricercatori, studenti e docenti per continuare la nostra chiacchierata attraverso il nostro blog. A presto dunque.

1 (URL=http://www.comunitazione.it/leggi.asp?id_art=203&id_area=157&mac=4)

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