Era prevedibile che sulla donna iraniana condannata a morte per concorso nell’omicidio del marito e per adulterio, si scatenasse l’abituale campagna stampa contro un Paese che, in definitiva, ha una sola colpa: quella di essere annoverato fra i nemici dell’Occidente.
Le leggi islamiche sono, difatti, in vigore anche in altri Passi, dove vengono applicate con lo stesso rigore senza che questo scateni campagne umanitarie che urterebbero la sensibilità e la suscettibilità di governi amici dell’Occidente.
L’Arabia saudita, dove la sharia è legge di Stato, non è mai stata oggetto di attacchi politici e mediatici da parte dei Paesi occidentali per i quali, evidentemente, i diritti umani vanno difesi solo in quei posti dove le contingenze politiche lo richiedono.
Nessuno ha mai visto i politici italiani e la stampa mobilitarsi contro l’uso di far sfilare una donna nuda per le strade, come in uso in certe zone del Pakistan, amico degli Stati uniti, per punirla di comportamenti sessuali illeciti.
Lunga sarebbe la lista delle pene inflitte alle donne nei Paesi governati dagli amici e dagli alleati degli Stati uniti, delle quali nessuno osa parlare e, tantomeno, chiede di condannare.
Ma, quello che qui interessa è porre in rilievo come si usa una tragedia umana, come quella che coinvolge una donna, per un uso politico fingendo di non sapere che la condannata è stata giudicata da un Tribunale, nel rispetto dei suoi diritti alla difesa, che ha ammesso le sue responsabilità, che è detenuta da quattro anni, che, infine, se sarà uccisa pagherà per le sue colpe dinanzi alla giustizia del suo Paese di cui lei conosce le leggi e le pene.
Quante donne, in Italia ed in Europa, negli stessi giorni in cui scattava la mobilitazione politica e mediatica per la donna iraniana, sono state uccise per motivazioni varie e in modi diversi?
La differenza fra queste donne e quella iraniana è che loro sono state “giustiziate” innocenti, senza colpa, vittima di una barbarie che la giustizia occidentale non riesce più a contenere, per il massimo delle sue leggi, per la mancanza di senso della giustizia per il quale oggi l’assassino ha il diritto di ritornare nella società e riprendere il suo posto, dopo aver scontato una pena che spesso è irrisoria.
Alle donne italiane è rimasto il dovere di morire,ai loro assassini il diritto di vivere per essere recuperati alla società civile!
E’ un incitamento alla violenza ed all’omicidio, questo modo di intendere la giustizia per la quale i morti hanno il torto di essere morti, e i vivi che li hanno ammazzati hanno il diritto di “rifarsi una vita” perché, purtroppo, qualche anno di galera devono ancora farglielo fare, anche se stanno tentando di tutto per risparmiargli anche quello.
La vicenda tragica della donna iraniana ci pone dinanzi all’evidenza di due modi diametralmente opposti di concepire la giustizia: quello iraniano, dove chi uccide può essere ucciso, e quello italiano dove chi ha ucciso viene intervistato in televisione e, alla fine, gli fanno anche il film.
Inoltre, in Iran, secondo la legge islamica, la donna può salvarsi se i familiari della vittima le concederanno il loro perdono, perché solo a questi ultimi è riconosciuto il diritto di perdonare, mentre da noi lo rivendicano e lo esercitano direttori di carcere, magistrati di sorveglianza, politici e giornalisti, nessuno dei quali ha mai conosciuto la vittima.
Quante volte abbiamo ascoltato le parole accorate dei familiari delle vittime chiedere giustizia? Quanto volte li abbiamo sentiti recriminare perché gli uccisori dei loro cari erano già tornati in libertà, protervi ed arroganti?
Prendiamo, quindi, esempio dalla vicenda umana della donna iraniana per la quale non facciamo fatica ad esprimere l’augurio che possa comunque vivere, per riflettere sulle condizioni della nostra giustizia e del modo con il quale difende le donne.
Quanti uomini per i quali sparare, accoltellare, strangolare una donna è stata cosa facile, spiegandola con i motivi passionali, quasi che si possa far credere che sia l’amore ad indurre ad uccidere e non l’odio, si sarebbero fermati dinanzi alla prospettiva di essere a loro volta uccisi?
Nessuno pubblicizza il fatto che ad occuparsi del codice penale in Afghanistan, ci sono esperti italiani che lì fanno l’esatto contrario di quello che fanno qui: difatti, il codice penale afghano prevede la pena di morte e la fustigazione, che evidentemente sono ritenute compatibili con la civiltà di quel popolo.
Dato che l’Afghanistan attuale è sotto il controllo americano e della Nato, tutto appare lecito, compresa la condanna a morte e la fustigazione delle donne, comminate con l’avallo dell’Italia.
La falsità della politica e della stampa è cosa nota, ma si potrebbe cominciare a chiedere che si ristabilisca qui la giustizia, oggi inesistente.
Si potrebbe iniziare a pretendere che la difesa delle donne e dei loro corpi violati e maltrattati si faccia qui con lo stesso rigore che esiste in quei Paesi dove la vita umana ha ancora valore, dove non si può impunemente uccidere degli innocenti e dove ancora oggi si paga con giusta severità la violenza esercitata sulle donne.
Si, perché oggi si strepita per la vita della donna iraniana, ma da sempre si tace sulle condanne a morte degli uomini che hanno ucciso e violato delle donne.
Non sarebbe sbagliato proporre un referendum femminile per decidere quali pene infliggere ai carnefici delle donne. Le prime ad uscirne condannate sarebbero la politica e la giustizia attuale.
E, magari, per la prima volta, vedremo in televisione apparire qualcuno che dichiari come sia prioritaria la difesa della vita delle nostre donne innocenti, rispetto a quella di una donna colpevole di omicidio in un Paese lontano.
Sarebbe un primo decisivo passo per resuscitare la giustizia in Italia ed innalzare una prima, concreta barriera a difesa delle nostre donne.
Vincenzo