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Posts Tagged ‘libertà’

Nel breve volgere di una settimana si sono svolte due manifestazioni che hanno avuto entrambe lo scopo di contrastare la violenza e la morte.

E’ stata celebrata, da un lato, la Giornata contro la violenza sulle donne e, dall’altro, la Giornata contro la pena di morte indetta, quest’ultima, dalla Comunità di Sant’Egidio.

A levare la loro voce contro questa e quella, la violenza sulle donne e la pena di morte, sono stati gli stessi personaggi che si rappresentano, in questa maniera, come gli alfieri ed i difensori della civiltà odierna.

I telegiornali hanno snocciolato le cifre della violenza contro le donne, impressionanti per qualità e quantità, fra i quali spicca quello riferito alle donne uccise in 11 mesi: 115.

Centoquindici vite spezzate per sempre da mariti, fidanzati, conviventi, violentatori, bulli, rapinatori ecc. ecc.

Centoquindici assassini per i quali, quando arrestati, si è già messo in moto il meccanismo giudiziario e penitenziario che deve assicurare, il primo, una pena che dia a costoro la possibilità di essere reintegrati, in futuro, nella società, garantita dal secondo che assicura una rieducazione presunta ed un ravvedimento provato solo dalle parole e mai dai fatti.

Nel momento in cui centoquindici bare venivano calate nelle fossa, lo Stato volgeva il capo verso gli assassini e li rassicurava sulla loro possibilità di rifarsi una vita, di uscire dal carcere per coltivare i rapporti affettivi, di trovare magari un’altra donna che potrà consolarli per gli anni di carcere che, comunque, saranno costretti a fare.

E’ la logica del perdonismo esasperato, dell’indulgenza ad ogni costo, portata avanti da quanti hanno identificato la civiltà e la modernità con l’ impotenza dello Stato e della società dinanzi a quanti si ritengono in diritto di compiere crimini, anche i più atroci, salvo invocare il loro diritto alla vita e alla libertà.

Le classi dirigenti, oggi, hanno un solo impegno cancellare la parola giustizia per sostituirla con quelle di “clemenza”, “perdono”, “rieducazione”, nel tentativo di convincere il popolo che la sola giustizia è quella buona, che assolve, che condanna a pene miti, che comprende le ragioni degli assassini e salvaguarda i loro diritti, primi quello alla vita e alla libertà.

La lotta contro la pena di morte, vista come espressione di inciviltà e di barbarie, si propone esattamente questo obiettivo, quello di poter dire a chiunque che può delinquere, che può uccidere con la consapevolezza che lo Stato saprà comprendere ed aiutarli a riconoscere il loro errore perché possano tornare liberi e mondi dal peccato in una società attonita ma impotente.

In tutto questo manca qualcosa di sostanziale, quel senso di giustizia che ha accompagnato per millenni gli uomini di tutte le razze e che da mezzo secolo, si cerca, in tutti i modi, di cancellare.

Tutte le pene hanno una funzione preventiva e repressiva insieme, perché si rivolgono agli uomini per ammonirli e dissuaderli dal compiere reati che, quando commessi, trovano la loro sanzione certa, sicura, implacabile.

Lo Stato si rivolgeva agli uomini anche per dire che, ove non fosse stata sufficiente l’educazione, la religione, la morale, interveniva la giustizia che, provata la colpa, procedeva con massima severità nei confronti dei colpevoli.

Lo Stato s’imponeva, dunque, il compito di disarmare la mano di quanti, per motivi quasi sempre futili se non abietti, potessero sentirsi autorizzati ad uccidere innocenti.

Oggi, le classi dirigenti ritengono che non la mano degli uomini ma quella dello Stato che, nelle sue funzioni ha quella di proteggere la vita ed i beni dei cittadini, deve essere disarmata.

E’ lo Stato che sale sul banco degli imputati in veste di criminale perché non si può togliere la vita ad uomo, in quanto la vita è sacra, ecc. ecc.

Il rispetto per la vita, la persona e i beni altrui s’insegna, nelle famiglie, poi nelle scuole, fa parte integrante dell’educazione e della formazioni civica di ogni cittadino.

Ogni Stato che si rispetti svolge questa attività educativa alla quale, segue, necessariamente, una di carattere repressivo quando la prima si è rivelata inefficace per quanti ritengono di essere in diritto di infrangere le regole della civile convivenza.

La pretesa di dichiarare criminale lo Stato che punisce e considerare un “bravo ragazzo” che ha “sbagliato” chi commette reati che giungono fino all’omicidio, può appartenere solo a coloro che vogliono distruggerla società, non edificarne una nuova e migliore.

La pena di morte, come ogni altra pena, ha un valore dissuasivo meno per una minoranza di uomini che sono fisiologicamente portati al crimine.

Ma, se l’ombra del patibolo non costituisse un deterrente efficace, la pena di morte rappresenterebbe un atto di giustizia, vera, autentica, quella che non ritiene che un omicida di bambini debba sopravvivere ai piccoli innocenti che ha massacrato, semplicemente perché la sua vita non ha più ragione d’essere.

Non è tollerabile che, da un lato, si pianga su centoquindici bare fingendo di non sapere che molte fra queste sarebbero rimaste vuote se gli assassini fossero stati consapevoli di andare incontro, per il loro crimine, a sanzioni estreme.

Non si può prevenire la violenza contro le donne stampando una guida che insegni a queste ultime come riconoscere a tempo le intenzioni dei loro aggressori e dei loro uccisori.

Perché questa è la risposta dello Stato, questo lo scudo che dovrebbe proteggere le donne dalla violenza e dalla morte.

Se stare dalla parte degli innocenti è barbarie, se ritenere che la vita di donne, bambini, innocenti abbia valore e quella dei loro assassini no, allora è onorevole dichiararsi barbari, scegliendo di stare dalla parte dei giusti e della giustizia.

Vincenzo

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George Orwell lo aveva scritto, il suo romanzo più famoso, per denunciare il sistema schiavistico instaurato in Unione sovietica da Josip Stalin.

I fatti, però, ci dimostrano che il “Grande Fratello” è stato realizzato nelle società sotto il controllo del capitalismo che, più accortamente, non usa in maniera evidente le forze di polizia, ma i mezzi di persuasione di massa.

Il “Grande Fratello” non è il titolo di una trasmissione grottesca dove un gruppo di
disperati e disadatti cerca effimera fama e un po’ di soldi esibendo corpi e sentimenti, emozioni e amorazzi, è una realtà quotidiana che tutti viviamo, in maniera più o meno consapevole.

Dai televisori trasuda miele e marmellata, ma, se una volta spenti, ci lecchiamo le dita il sapore è amaro, perché è quello dell’inganno e dell’uso strumentale dei sentimenti delle popolazioni.

Televisione e non solo, come mezzi di controllo sociale sugli adulti, sui giovani, sui bambini.

Come, giustamente, denuncia Francesca nel suo bell’articolo, “Punto di non ritorno?”, si pretende oggi di sostituire la presenza degli uomini con mezzi di controllo a distanza che servano a garantire sicurezza.

La sicurezza come ossessione del nostro tempo, con migliaia di telecamere che ci spiano da ogni dove, che seguono ogni nostro passo, che registrano ogni nostro sospiro, ma che non riescono a darci la sicurezza perché non fermano chi vuole comunque delinquere.

Ora, hanno inventato le telecamere “intelligenti” che analizzano i comportamenti delle persone spiate per comprendere quali siano le loro attenzione ed individuare a tempo, così raccontano, eventuali terroristi.

Telecamere, chip per controllare i bambini, e, in futuro, meccanismi di controllo a distanza per condizionare i comportamenti di tutti, magari inseriti nel cervello.

Un futuro da fantascienza da incubo, dove pochi potranno condizionare, con l’uso di macchine sempre più raffinate, milioni e milioni di persone.

Uomini come animali. Come oggi si controllano a distanza orsi e coccodrilli per conoscerne in ogni momento l’ubicazione ed i percorsi, così vogliono fare con gli esseri umani a cominciare dai bambini per finire ai vecchi.

Questo è il “Grande fratello” di orwelliana memoria: un sistema di controllo a distanza che, dapprima, verifica i movimenti, poi condiziona emozioni e sentimenti, quindi inquadra le masse per renderle prone ed obbedienti al potere onnipotente che tutto vede e sente.

Come dice Francesca, non abbiamo bisogno di “chip intelligenti” ma di “adulti intelligenti”, solo che dobbiamo trovare e contare questi ultimi perché, insieme ad essi, ci si potrà opporre, con le armi della ragione e della morale, a quanto di immorale ci stanno imponendo per la nostra “sicurezza”.

Ci vogliono togliere quella libertà che Dio, onnipotente ed onniveggente, concede agli esseri umani rispettando il loro arbitrio nel bene come nel male.

Qualcuno pretende, oggi, di sostituirsi a Dio in nome della salvaguardia della nostra sicurezza, cercando di prevenire il male con metodi di controllo a distanza che, viceversa, hanno sempre fallito nel loro obiettivo.

E se questi mezzi non servono a garantire uomini e società, allora bisogna convenire che le finalità di chi li costruisce, li impone, li diffonde e li utilizza sono esattamente quelli di chi ha scoperto il modo di dirigere senza comparire, di comandare mantenendosi invisibile, di soffocare ogni libertà offrendo in cambio sicurezza.

No, grazie.

A questo “Grande Fratello” che vuole trasformarsi nel “Grande Papà” che tutto vede e a tutto provvede, che previene e che reprime, preferiamo che sia solo lo sguardo del cielo a sorvegliare la nostra vita e quella dei nostri figli, il sole e le stelle com’è dal principio e come sarà per l’eternità.

Vincenzo

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In questo ultimo decennio, ci hanno bombardato di informazioni per convincerci dell’utilità e dei vantaggi dei chip.

Ci hanno raccontato che questi chip servivano per monitorare gli acquisti dei capi di abbigliamento, per controllare il mercato dei medicinali contraffatti, per combattere il terrorismo, per evitare errori nella somministrazione dei farmaci nei pazienti,…

Tralasciando per un momento, gli enormi guadagni che queste società produttrici incasseranno dalla vendita di questi chip, è drammatico pensare come i burattinai stiano piano piano indottrinando e utilizzando, per i loro scopi, i bambini, inventando a tavolino sempre più espedienti per avere sotto controllo le persone più indifese, che a volte, hanno accanto adulti poco coscienti di quello che stanno facendo ai loro figli.

L’utilizzo di questi chip ci viene presentato, in questi giorni in Francia, come la soluzione più appropriata per ridurre i costi del personale di un servizio educativo, verificando al tempo stesso se questo sistema sia efficace in termini di sicurezza per i bambini.

Stanno cercando di comprare il consenso dell’opinione pubblica, sostenendo che i chip sono uno strumento valido per placare le ansie dei genitori, i quali saranno allertati immediatamente se il loro bambino scapperà dall’asilo.

Noi, invece, ci chiediamo come la sicurezza di un bambino possa essere ridotta ai suoi tentativi di fuga, certamente la sua sicurezza fisica deve essere salvaguardata così come lo deve essere però la sua sicurezza emotiva, quella “fiducia di base” che deriva dall’apprendimento di modalità positive di rapporto, un rapporto che certamente non può nascere tra il bambino e un chip inserito nel suo giubbotto, ma dal vivere relazioni positive con l’adulto.

Ci chiediamo, inoltre, come si possa conciliare la riduzione del personale (anche ausiliario) con una condizione (fisica ed emotiva) del bambino che riesca a garantire, al tempo stesso, il suo ben-essere.

Perché invece di ridurre i costi del personale non si vuole ridurre i finanziamenti per lo studio, la ricerca di microchip i cui compiti all’interno di un servizio educativo possono benissimo essere svolti da personale qualificato e preparato?

Vogliamo un bambino solo e controllato o un bambino integrato ed educato alla libertà?

Vogliamo che fra vent’anni questo bambino abbia la possibilità di diventare un adulto veramente libero oppure stiamo facendo il possibile perché questo non avvenga offrendogli un futuro nel quale vivrà quotidianamente scenari orwelliani che considererà “la normalità”?

Quello di cui, oggi, abbiamo bisogno non sono “chip intelligenti” ma adulti intelligenti, che sappiano impegnarsi per una “cultura dei diritti” in grado di godere di una propria “natura morale”: i diritti del bambino si realizzeranno solamente quando gli adulti assolveranno i loro doveri.

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