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Archive for the ‘Attualità’ Category

Poche e fugaci immagini trasmesse da un telegiornale nazionale ci hanno fatto vedere l’arresto di un bambino palestinese di lì anni da parte di agenti della polizia israeliana.
Il bambino che tenta di scappare, i poliziotti che l’agguantano e lo scaraventano su un furgone, la madre che batte disperata i pugni sull’automezzo che si porta via il figlio.
Nessun commento da parte dei giornalisti. Solo la precisazione che il bambino dovrà testimoniare sul fratello di 14 anni che è stato accusato di aver lanciato pietre contro la polizia israeliana.
Fine del servizio. Proviamo ad immaginare cosa sarebbe accaduto se la polizia palestinese avesse osato arrestare, in quel modo, un bambino israeliano di 11 anni, sotto la occhi della madre piangente.
Quindici giorni di dibattiti televisivi, messaggi di sdegno dai rappresentanti dei partiti politici e delle istituzioni, uno spettacolo degno del circo mediatico italiano.
In questo caso, un filmato di tre minuti trasmesso da un solo telegiornale, e poi il silenzio.
Nessuno si è chiesto con quali modalità sarà condotto l’interrogatorio di un bambino di 11 anni da parte della polizia israeliana, impegnata a convincerlo a testimoniare contro il fratello di soli 14 anni.
Nessuno ha scomodato i diritti dell’infanzia, ha chiesto l’intervento dell’Onu e dell’Unicef, ha osato deplorare il comportamento dei poliziotti israeliani.
In un Paese come il nostro, dove un bambino di 11 anni può essere indotto anche ad uccidere e non è considerato punibile, non ha suscitato sdegno il trattamento inflitto ad un bambino palestinese, non ha commosso il pianto disperato della madre.
Sono forse questi bambini quelli che minacciano l’esistenza dello Stato di Israele?
Sono, magari, loro i nemici di uno Stato che conta uno degli eserciti più potenti del mondo?
Dal nostro punto di vista, memori di altre immagini fra i quali l’uccisione di un bambino nelle braccia del padre ad opera dei soldati israeliani, ci sembra che Israele ed i suoi amici in Italia e nel mondo, siano essi i promotori di un odio che non si potrà estinguere fino a quando non si faranno scrupolo a perseguitare ed uccidere bambini.
Vogliamo spendere una parola per loro? Vogliamo chiedere che siano trattati con l’umanità che la loro età esige?
Fiumi di parole ascoltiamo tutti i giorni sulla necessità di difendere i diritti dei bambini nel mondo, ma la Palestina è forse un Paese alieno?
Non ci pare. La Palestina è uno Stato al quale viene negato ancora oggi il diritto di esistere e di vivere in pace, quello palestinese è un popolo che è stato espropriato della propria terra e cacciato in esilio, condannato a scomparire dalla storia.
Restiamo silenziosi, inerti, pavidi perfino di fronte alla brutalità della polizia israeliana nei confronti dei bambini palestinesi, magari fingendo si credere che una volta al commissariato, il “criminale” sarà interrogato ed indotto a testimoniare contro il fratello con coccole e caramelle, e non a bastonate di cui nessuno preferisce sentire il suono che accompagna le sue grida ed i suoi pianti.
Noi non chiudiamo gli occhi, non ci tappiamo le orecchie, non ci sigilliamo le labbra, perché non è opportuno o, più esattamente, non è conveniente criticare i metodi della polizia israeliana che si accanisce sui bambini.
Non è un problema politico, perché difendere i bambini, tutti i bambini ovunque essi vivano, è un problema di coscienza, di umanità e di civiltà.
Denunciamo ciò che i nostri occhi hanno visto e chiediamo che anche Israele sia indotto dalla comunità internazionale a rispettare i diritti dell’infanzia, a garantire la tutela dei minori, ad impiegare le proprie forze di polizia per proteggerli, non per perseguitarli, arrestarli, interrogarli e fare loro violenza fisica e psicologica.
Chiedere il rispetto dei diritti umani dei bambini è un dovere che non si dovrebbe eludere mai perché, in caso contrario, per coerenza, dovremmo abbandonare la pretesa di essere civili.

Vincenzo

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Ancora una volta, si è levata accorata la voce dei genitori di Yara, questa volta rivolta contro coloro che sfruttano la memoria della figlia per vendere più copie e fare audience in televisione.
I giornalisti italiani – è noto – non conoscono la pietà e il rispetto, e la richiesta dei genitori di Yara di smettere di pubblicare e trasmettere video che ritraggono la loro bambina mentre danza felice, ne è l’ennesima dimostrazione.
Yara deve ancora trovare sepoltura, ma il silenzio dovrebbe scandire i giorni che mancano ad un funerale che ci auguriamo che l’intera comunità di Brembate voglia celebrare tenendo a distanza chi finge commozione per lo stipendio che gli nassa il giornale o il telegiornale.
Yara è lontana, in un mondo in cui nessuno potrà più farle del male, ma i suoi familiari vivono nel ricordo che le immagini di lei, danzante, sorridente, felice, rendono straziante.
Non serve un grande senso di umanità per comprendere che vedere Yara, felice, rinnova il dolore, lo rende più atroce, accresce la consapevolezza dell’assenza, del ritorno a casa che non ci sarà mai più.
I campioni dell’italico pietismo non lo comprendono, perché non sanno cosa siano la pietà e il rispetto.
Sono lì, pronti a riversare fiumi di parole sull’assassino o sugli assassini di Yara, disposti ancora ad usarla per i loro fini, per vendere la loro merce avariata calpestando il ricordo di una bambina uccisa e il dolore dei suoi familiari.
Sono molte le considerazioni amare che la morte di Yara obbliga a fare.
Da quelle relative all’incapacità di questa società a difenderla, perché priva di un deterrente efficace, a quelle dell’inidoneità degli investigatori ormai capaci di risolvere un caso solo se le telecamere riprendono la scena del crimine o se il Dna gli fornisce la soluzione, all’assenza della politica che non interviene, che si mantiene distante da una tragedia che colpisce tutta la collettività nazionale perché è la ripetizione di tante altre simili a questa, al ruolo di una Chiesa che si è ridotta a parlare solo di bontà e di perdono dimenticando che Dio, prima di ogni altra cosa, è giusto.
Le svilupperemo, una per una, perché è doveroso farlo nel rispetto dei sentimenti dei genitori e dei familiari di Yara, dai quali viene l’esempio di una dignità che sembrava perduta in questo Paese dove si va ai funerali per applaudire e mettersi in fila nella speranza di essere intervistati.
Li abbiamo ammirati per la compostezza con la quale hanno vissuto e stanno vivendo la loro tragedia, per il loro riserbo, il loro silenzio, la difesa degli altri figli mai offerti alle telecamere, il dolore immenso che non travalica le mura della loro casa.
Italiani di un’Italia che va scomparendo, ma che ancora esiste e resiste, i genitori di Yara dovrebbero essere portati ad esempio per tutti i concittadini di questo Paese dove l’ambizione più grande dei più è apparire in televisione.
Noi lo facciamo e non 1i dimenticheremo, neanche quando i riflettori di quella che ci sentiamo di definire la canea giornalistica si saranno spenti.
Non si estinguerà il nostro rispetto per loro, non si spegnerà il ricordo di Yara perché vogliamo che abbiano giustizia in un Paese che non ha più giustizia.

Vincenzo

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Sempre più spesso emergono episodi di violenza gratuita su bambini ospiti negli asili nido.

Non ci prestiamo al gioco al massacro della stampa che subito li ribattezza “asili dell’orrore”, perché l’orrore non c’è, sostituito dall’indignazione verso comportamenti che non possono trovare, per l’età delle vittime, alcuna giustificazione.

Non si strattonano i bambini, non si percuotono, non si prendono a schiaffi perché nella loro tenerissima età è delittuoso usare violenza che non serve ad educare perché non comprendono le ragioni per la quale la subiscono.

Non riusciamo a. comprendere come si possa colpire, anche senza eccedere, bambini di pochi mesi o di qualche anno di età la cui vista può solo ispirare tenerezza e smorzare ogni ira.

Dobbiamo chiederci cosa accade a donne in apparenza normalissime, quando vengono colte da raptus di violenza che non sono in grado di controllare. Odio per i bambini? Pensiamo che si possa escludere tale ipotesi.

Problemi familiari, depressioni, rigetto del lavoro che fanno, non tale da generare soddisfazione ma, viceversa, frustrazioni di ogni genere?

Le cause possono essere molteplici, variare da individuo ad individuo, ma hanno poco valore se raffrontate alle conseguenze che derivano dalla violenza con la quale si manifestano.

Nessun bambino ha riportato lesioni, perché la violenza è comunque contenuta, rapportata all’età delle vittime, ma è proprio necessario far sperimentare a bambini in così tenerissima età la malvagità e le brutture della vita?

E’ un’età, la loro, in cui dovrebbe essere cullati nella illusione che la vita è dolcezza, bontà, carezze, è quel sogno che nessuno è mai è riuscito a tradurre in realtà per gli uomini.

Quel Paradiso dove il bambino è circondato da angeli che ridono quando lui ride, che lo consolano quando piange, che lo stringono fra le braccia, che lo vegliano quando dorme.

La colpa, vera di queste donne e della loro violenza è proprio quella di far conoscere anzitempo ai bambini il dolore procurato da altri, la paura, l’ansia, la comprensione che l’Eden non esiste, che alle loro braccine tese per ricevere un bacio ed un abbraccio si può rispondere con uno schiaffo che fa male, fuori e dentro.

Non si uccidono i sogni dei bambini. Magari è proprio questa riflessione che andrebbe indotta, non solo negli asili nido, in chi si occupa di infanzia, quelle che vede i nostri bambini vivere la loro favola che noi adulti sappiamo quanto breve essa sia.

Lasciamo che vivano nella loro fiaba dove la luce del giorno è sempre dorata, la mamma è bella, papà è forte, gli adulti sono angeli magari stravaganti ma tanto, tanto buoni.

Vogliamo fare in modo che fino a 3 anni di età, i nostri figli credano alla bellezza della vita ed alla bontà degli uomini?

Insieme a tutti gli insegnamenti sulla crescita del bambino, l’alimentazione, i pannolini ed i pannoloni, che sono necessari per dare benessere ai tenerissimi infanti, sarà forse il caso di impartirne un altro, quello che permetta di ripercorrere la via dei sogni che, ogni adulto ha fatto da bambino.

Riscoprire i propri sogni infantili e ricordare quanta amarezza e quanto dolore è costato vederli andare in frantumi, un poco per volta, può addolcire l’animo dell’adulto, fermare il braccio che sta per colpire, perché comprenda il delitto che sta per compiere e non vorrà che in quegli occhi che ancora lo guardano con fiducia e serenità appaia dopo la paura, il sintomo inequivocabile del sogno spezzato.

E non c’è norma del codice penale che preveda la punizione di questo delitto.

Prevediamola. Accanto ai delitti contro i beni, la morale, la persona, inseriamo quello contro il sogni dei bambini e della loro innocenza, da punire senza indulgenza.

Forse, il mondo potrà fare un passo avanti sulla via della civiltà.

Vincenzo

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Lo sapevamo. L’abbiamo sempre saputo che Yara era stata uccisa, anche se non lo potevamo affermare per non turbare i genitori ed i fratelli che, certamente, non volevano perdere la speranza di rivederla.
Nessuno può sequestrare una bambina di 13 anni, a prescindere dal fine che lo anima, e poi lasciarla in vita, con la ovvia certezza che lo potrà identificare, se già la bambina non lo conosce.
Ora, Yara è morta. Ed è iniziato lo spettacolo indegno, indecoroso ed indecente di quanti già invocano il perdono per il suo uccisore. Dal prete del paese che, sotto l’occhio delle telecamere, ricorda che contro la cattiveria bisogna lottare con la bontà, allo scrittore che ipotizza che l’assassino di Yara ha conservato il suo telefono cellulare come muta richiesta di aiuto, al padre di un bambino ucciso da Luigi Chiatti che dichiara di averlo perdonato, è partita la gazzarra per presentare l’omicida come un “malato” che, ovviamente, avrà bisogno di cure, al quale bisognerà dare il tempo di pentirsi e di ravvedersi con una pena che gli dia la possibilità di essere recuperato alla società, sempre che non lo si riconosca infermo o semi-infermo di mente.
Non sanno ancora chi sia stato a togliere con una ferocia inaudita la vita a Yara, ma temono l’emozione che il suo omicidio ha provocato e corrono, preventivamente, ai ripari.
Il prete paragona Yara a Santa Maria Goretti perché, ovviamente, una santa non può che perdonare, ma non è elevando Yara agli altari che si cancella l’orrore.
Yara era come appare: una bambina sana, forte, piena di vita e di gioia di vivere, che si è difesa con tutte le forze non per proteggere la sua castità ma la sua vita. Perché la bambina in quei lunghi, interminabili minuti di terrore ha compreso che stava per morire e ha lottato come può farlo una della sua età, con le sue forze non paragonabili a quelle del suo assassino.
Fra i tanti ciarlatani che ogni giorno imperversano in televisio ne per parlare dell’omicidio di Yara, che hanno perfino osato criticare i genitori per aver chiesto il silenzio stampa, non uno ha ricordato l’agonia di Yara, la sua paura, la sua disperazione mentre sentiva che la vita le sfuggiva.
Non uno di questi cialtroni ha posto l’accento sulla lenta agonia della bambina alla quale nulla è stato risparmiato, obbligandola a vivere la sua morte.
Neanche un estremo gesto di pietà, quello di ucciderla senza farla soffrire.
Ora, dinanzi alla possibilità dell’arresto e della condanna del suo uccisore, si cercano già le attenuanti, le giustificazioni ed il perdono da imporre ai genitori di Yara.
Fermo restando il rispetto per ogni decisione immediata e futu ra dei genitori di Yara, noi ci auguriamo che chiedano solo giustizia, quella vera che esclude attenuanti, sconti di pena, benefici di legge in cambio di ravvedimenti parolai e indimostrabili.
Sarà sempre una giustizia dimezzata, perché chi ha commesso il delitto con lucidità, consapevolezza, astuzia non meriterebbe di vivere se non nel terrore, tipico degli infami, di vedersi approssimare l’ora di salire sul patibolo.
Ma questa è la sola giustizia possibile in questo Paese in cui ha valore solo la vita dei colpevoli, mai quella degli innocenti di cui nessuno difende la sacralità, in nome di una civiltà che, viceversa, è barbarie.
L’assassino di Yara, se e quando arrestato e condannato, potrà fa re i calcoli degli sconti di pena che gli spettano per la “buona condotta” carceraria, le date in cui potrà chiedere i “permessi premiali”, le interviste che concederà per dire che non dorme più la notte per il rimorso, il rosario da mettersi attorno al collo per esibirlo alle telecamere, e via via tutto lo squallore di uno spettacolo che conosciamo da decenni, sempre disgustoso, sempre più intollerabile.
Almeno per Yara, per questa bambina che sognava una vita felice, che esprimeva la sua gioia e la sua vitalità nella danza artistica, per quel suo sorriso sbarazzino, risparmiamoci lo spettacolo miserabile della pietà per il suo assassino.
Per Yara, pretendiamo solo giustizia.

Vincenzo

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Il caso Ruby ha scatenato, per mere ragioni politiche, l’ipocrita indignazione di quanti fingono di aver scoperto che le minorenni che partecipano ai concorsi di bellezza sono oggetto delle attenzioni, non proprio paterne, di tanti uomini ai quali le “lolite” di turno piacciono, e molto.

Hanno finto di aver scoperto che buona parte delle minorenni, con l’assenso delle loro famiglie, accettano di buon grado le offerte degli uomini in cambio, se non di denaro, della possibilità di fare carriera nel mondo dello spettacolo nel quale oggi l’unico requisito richiesto ad una ragazza è il proprio corpo.

I moralisti dell’ultima ora, però, il problema lo usano solo per attaccare Silvio Berlusconi, esemplare di quella fauna miliardaria e politica che non ha mai occultato i suoi vizi privati, pacati a suon di milioni di euro.

Siamo certi che, finito il processo, di minorenni traviate ed utilizzate nei concorsi di bellezza per il piacere dei maschi, non se ne parlerà più.

Nessuno ha avanzato la proposta più ovvia, la più semplice, quella cioè di vietare per legge la partecipazione di ragazze minorenni ai concorsi di bellezza, riservandoli solo a coloro che hanno compiuto i 18 anni di età.

Di solito, sotto i 18 anni, le ragazze sono ancora studentesse, devono prendere il diploma e per farlo devono studiare, non hanno altro da fare in quegli anni della loro vita, così che bisogna salvaguardarle dal desiderio di mamme e papà di farse esibire in passerella nei concorsi di bellezza e di sognare per la carriera della soubrette televisiva o dell’attrice cinematografica.

La ragione, il decoro, la dignità non sono di casa in tante famiglie italiane nelle quali contano i soldi che le figlie belle possono guadagnare per, poi, magari diventare famose passando da un letto all’altro di quanti contano nella società.

In un paese in cui, oggi, i minorenni sono “protetti” al punto che nemmeno l’omicidio può farli finire in galera, perché ritenuti semi infermi di mente fino al compimento del 18° anno di età, nessuno pensa di proteggere le belle ragazzine dalle attenzioni degli uomini maturi e dai loro stessi genitori, facendo approvare dal Parlamento una legge che vieti, sic et simpliciter, la partecipazione delle minorenni ai concorsi di bellezza e a tutte quelle manifestazioni in cui è richiesto come unico requisito l’esibizione del proprio corpo.

Queste ragazze, le loro coetanee, potrebbero ben partecipare a concorsi di intelligenza, di cultura, in cui esibire le loro capacità intellettuali rimandando alla maggiore età la partecipazione a sfilate in cui il costumino da bagno che indossano non mette in luce le loro qualità intellettive ed interiori ma solo quelle fisiche che tante fantasie maschili sanno sollecitare.

Non basta ricordarsi della corruzione delle minorenni solo quando serve per attaccare politicamente un avversario, tolto il quale di mezzo, l’andazzo prosegue come sempre e, magari, peggio di sempre.

Bisogna intervenire con una legge che imponga quello che la ragione e l’interesse negano, la difesa delle minorenni e la loro tutela anche contro la volontà dei familiari e i loro stessi desideri di successo ad ogni costo.

Certo, si potrebbe fare altro. Ad esempio, parlare meno di Elisabetta Canalis, Valeria Marini, Manuela Arcuri, Belen, tutte bellissime donne che hanno raggiunto il successo per tutto quello che hanno mostrato, e non per capacità recitative ed intellettuali.

Si potrebbe svolgere un’ attività educativa che si estenda alla società intera e non sia solo confinata in ambito scolastico, ammesso e non concesso che oggi i docenti si preoccupino di insegnare altro che non mere nozioni.

Per poterlo fare, però, bisognerebbe cambiare tante cose in questa società, procedere a trasformazioni radicali che necessitano tempo e rigore morale.

Non rimane, quindi, altro da fare che accontentarsi di poco, del minimo che perfino oggi si può chiedere ed ottenere: porre un limite di età a quante concorrono ai concorsi di bellezza.

Sarebbe il primo, timido segnale di un’inversione di tendenza che possa preludere ad un riesame globale del problema femminile e dello sfruttamento della donna come oggetto di piacere maschile.

Vincenzo

 

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Gli occhi di Mohamad Zakaria Sulliman Salem Hajahjah sono tristi, incorniciati in un visino senza sorriso, consapevole già all’età di sette anni della sua esistenza di profugo palestinese senza futuro e senza speranza.
Fa male vedere la melanconia e la serietà nel viso di un bambino, perché la sua dovrebbe essere l’età della gioia, della spensieratezza, dei giochi felici e chiassosi, ma Mohamad Zakaria non ha mai conosciuto altro che la miseria in cui vive con la sua famiglia, un padre disoccupato, la mamma, due sorelline, una delle quali disabile.
Non può sorridere. E come lui altri mille ed altri mille ancora. Conosciamo tutti la situazione dei palestinesi, profughi nella loro terra, prigionieri di un potere israeliano che non potrà mai riconoscere la pienezza dei loro diritti perché dovrebbe restituire loro la Patria che gli ha sottratto con la forza delle armi.
Ma, ora, non ci interessa entrare nel merito del conflitto mediorientale, perché la nostra attenzione si volge ai bambini che ne sono le prime vittime, le più indifese, le più innocenti per chiederci cosa possiamo fare per loro.
In un terra lontana, non solo geograficamente, possiamo fare quel lo che la solidarietà suggerisce avvalendoci dell’opera preziosa dell’ “Associazione di amicizia italo-palestinese“, con sede a Firenze, in viale Matteotti n. 27, diretta da Mariano Mingarelli e Marina Maltoni.
Un’associazione senza scopi di lucro, apolitica nel senso che non esprime un’ideologia e neanche una posizione politica in senso proprio, fermo restando che è schierata con il popolo palestinese e la sua causa, peraltro condivisibili da tanti, da tutti se tutti conoscessero la storia e la sofferenza di questo popolo.
L’associazione si occupa di bambini, di coloro che innocenti paga no il prezzo più alto di una guerra che l’indifferenza del mondo ha reso eterna e senza fine.
Tante volte, su questo sito, abbiamo parlato dell’infanzia, dei bambini che sono il nostro futuro, che rappresentano l’avvenire di una umanità che non sa più come crescerli e che ostenta spesso nei loro confronti una crudeltà che ricopre d’ignominia un mondo che si definisce civile.
Fra questi bambini dimenticati ed oppressi, spiccano quelli della Palestina di Gaza, dei campi profughi, della miseria e del pianto che nessuno osa mostrare in televisione per timore di apparire anti-israeliano, quando viceversa parlarne ed occuparsi di loro significa semplicemente non rinunciare alla propria umanità in nome della politica.
Faremo per loro tutto quello che è nelle nostre possibilità fare perché lo suggerisce e lo impone la coscienza e l’amore per l’infanzia che consideriamo al di sopra delle parti, dei conflitti, della politica e delle ideologie.
Non sappiamo quanto la nostra azione potrà portare giovamento a questi bambini, ma la porteremo avanti con costanza ed impegno, sperando che un giorno sul viso di uno tanti Mohamad Zakaria si possa scorgere l’ombra di un sorriso ad illuminare i visini tristi e melanconici di chi nulla ha ma avverte la presenza di quanti sono loro vicini nella speranza che per loro ci sia un futuro che non sappia solo di fame, di morte e di prigionia, ma che abbia il sapore della vita e della libertà.

Vincenzo

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I risvolti della vicenda giudiziaria che coinvolge l’attuale presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e la marocchina “Ruby” e le frequentatrici delle feste nella villa di’ Arcore, non ci interessano.
Ci preme, viceversa, sottolineare un aspetto passato quasi inosservato di questa storia di miliardari gaudenti e di ipocriti moralisti dell’ultima ora.
Dalle intercettazioni pubblicate dai giornali e diffuse dai telegiornali, si apprende che diverse delle ragazze che frequentavano le ville di Silvio Berlusconi e ne allietavano le cene ed i dopo cena, raccontavano tutto a padri, madri e fratelli che, a loro vol ta, le incitavano a darsi da fare perché da loro dipendevano le fortune economiche delle famiglie.
Non condividiamo il linciaggio al quale sono sottoposte queste ra gazze, troppo sbrigativamente indicate come prostitute che si facevano lautamente pagare le prestazioni sessuali fornite al presidente del Consiglio.
Non sono escort che si vendono al miglior offerente. I dialoghi con i familiari dimostrano, viceversa, che sono ragazze, in grande maggioranza, che sfruttano le loro qualità fisiche per fare carriera.
Sono giovani donne che sono cresciute in una società in cui la libertà sessuale è un dogma che nessuno osa criticare per non essere accusato di oscurantismo o peggio.
Mettono a frutto, in pieno accordo con mamma, papà e fratelli, quello che la società attuale ha loro insegnato: che ad essere belle e compiacenti si può fare carriera passando da un letto all’altro, senza che nessuno se ne debba scandalizzare o le debba criticare.
Non ci sono attrici, oggi, che hanno fatto carriera per le loro doti interpretative, ma solo per i corpi generosamente esibiti e non certo negati a chi, agli inizi della loro carriera, poteva procurare loro una particina in un film o in qualche trasmissione televisiva.
Perfino in anni ormai lontanissimi per costume e mentalità, la signora per antonomasia del cinema italiano, Sofia Loren, si faceva fotografare senza veli perché l’esibizione del corpo era una necessità, evidentemente, alla quale nessuna aspirante attrice poteva e pub sottrarsi.
In una società in cui tutto è stato dissacrato non sono più solo le ragazze ha sfrattare il proprio corpo ma le famiglie tutte ad attendersi che lo facciano.
Siamo tornati nella Napoli del 1944, quando erano le madri ad offrire le figlie ai soldati alleati. Ma, all’epoca, le spingeva a farlo la fame e la miseria.
Oggi, c’è la carriera televisiva, la speranza di fare la “velina”, la possibilità di guadagnare soldi, tanti soldi da portare a mamma e papà e ai fratelli.
E questa realtà squallida passa sotto silenzio perché bisogna privilegiare i vizi privati di un miliardario divenuto presidente del Consiglio?
A noi non interessando i vizi di questo o di quello, da tanti conosciuti da anni e taciuti da sempre, c’interessa la degradazione del costume e l’ipocrisia di quanti ritengono normale che le ragazze finiscano nei letti dei registi, dei produttori, dei miliardari, salvo scoprire che sono prostitute solo quando vanno nella villa di Berlusconi, ad Arcore.
Non sono prostitute, con buona pace della procura della Repubblica di Milano, sono come migliaia e migliaia di ragazze italiane il cui ideale è Elisabetta Canalis, Valeria Marini o Belen.
Sanno tutte quello che devono fare, sotto la guida accorta di mammà e papà.
Che tristezza!
Vincenzo

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Qualche giornalista italiano ironizza sulla proposta presentata, in Gran Bretagna, dal parlamentare laburista, Graham Allen, di iniziare la preparazione scolastica dei ragazzi fin dall’asilo nido.
Secondo il parlamentare, gli asili nido rientrano nella scuola dell’obbligo “perché lo sviluppo educativo inizia con il parto, non 5 anni più tardi”, quando i bambini iniziano a frequentare le scuole.
A differenza dei giornalisti italiani, non ironizziamo su questa proposta che scopre una realtà che, viceversa, abbiamo sempre affermato, non circoscritta all’apprendimento dell’alfabeto e del far di conto da parte dei piccolissimi, sulla necessità di considerare gli asili nido come scuole a tutti gli effetti, e non parcheggi per bambini le cui madri lavorano o hanno altri impegni che non accudirli.
Una scuola che inizia con la nascita del bambino non è una fantasia, è una realtà viva e concreta perché cosa fanno di diverso gli adulti che accudiscono un bambino in tenerissima età, se non insegnarli, con la necessaria gradualità, i primi rudimenti del vivere in società.
Il bambino, fin dal primo vagito, è un essere pensante, che osserva quanto lo circonda, che apprende a riconoscere chi gli è vicino, che via via allarga il suo campo di osservazione fino a comprendere anche il modo di vivere insieme agli altri, a riconoscere gli oggetti, ad apprendere il loro diverso utilizzo, e così via.
Per il vero, quando un bambino inizia a parlare potrebbe, non solo teoricamente, apprendere a scrivere e a far di conto, perché ne ha la capacità solo che si trovino adulti capaci di condurre bambini di un anno o poco più sulla via dell’istruzione scolastica di base.
Quanti vantaggi potrebbero esserci per i bambini se, divertendosi, potrebbero apprendere a descrivere e a scrivere gli oggetti che sono sotto i loro occhi, a dare un nome non solo orale ai genitori, ai parenti, ai loro amichetti, stimolando la loro curiosità
Ci sono scimpanzè e perfino cani in grado di individuare le lettere dell’alfabeto e, i primi, perfino a comporre parole complete. Perché mai non dovrebbero essere capaci di farlo bambini da un anno in su?
A parte questo, interessa il principio del riconoscimento dell’asilo nido come prima scuola dell’obbligo, dove tutti i bambini dovrebbero essere portati a spese dello Stato, perché apprendano i rudimenti essenziali del vivere civile.
La pretesa che le educatrici dell’asilo nido siano, per convenzione, considerate alla stregua di bambinaie specializzate deve finire perché non è vero.
Le educatrici degli asili nido assolvono un compito che spesso le vede educare i bambini a loro affidati e, contestualmente, impartire ai loro genitori nozioni utili sul come crescerli.
E’ all’asilo nido, se le educatrici sono all’altezza del loro compito, che i bambini iniziano a socializzare con i loro simili e con persone estranee al loro ambito familiare.
E’ sempre all’asilo nido che iniziano ad acquisire autonomia, a mangiare in modo corretto, ad agire con criterio e con una certa disciplina basata sull’affetto delle educatrici e sull’emulazione dei comportamenti.
Non è, quindi, fuori luogo considerare anche la possibilità di insegnare ai bambini nell’asilo nido a riconoscere le lettere e a comporre le prime semplici parole, come “mamma, papà, cane, ecc.” in modo che si appassionino allo “scrivere” e al leggere andando avanti, con la necessaria gradualità, fino a giungere all’età di cinque anni con la capacità di leggere, scrivere e far di conto.
Sarebbe auspicabile che qualche parlamentare italiano si prendesse la briga di imitare il suo collega britannico e di proporre una riforma del sistema scolastico che comprende anche l’asilo nido fra quelle dell’obbligo, rendendolo accessibile a tutti e riqualificando professionalmente il personale che già svolge funzioni educative e docenti.
I bambini ci guardano e da noi apprendono tutto senza attendere che siano gli adulti, nella loro presunzione, a decidere cosa possano e debbano fare e a che età debbano iniziare un scuola che, in effetti, inizia fin dal primo vagito.
Prendiamone atto, una volta per sempre.

Vincenzo

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Spesso abbiamo dovuto fotografare dalle pagine di questo sito dedicato all’infanzia ed alle donne, l’impietosa realtà di un mondo che calpesta i diritti dei bambini, degli adolescenti e dell’altra metà del cielo.
All’inizio del nuovo anno, nulla ci giunge a conforto della speranza che qualcosa possa cambiare in meglio.
La cronaca di questi giorni ci ripropone le tragedie alle quali ormai siamo assuefatti e che sono divenute strumento di mera speculazione giornalistica.
A giorni, ricomincia su Rai Tre “Amore criminale”, una trasmissio ne dedicata alla ricostruzione di omicidi di donne, ad opera di mariti, conviventi, fidanzati, compagni di vita.
130 ogni anno, in Italia, muoiono in questo modo.
Forse, a nostro avviso, non servirebbe ricostruire le scene agghiaccianti e, spesso, morbose di questi delitti per fare audience, quando sa rebbe necessario dire se e come sono stati puniti i loro assassini, quando individuati e giudicati.
Parole amare potremmo scrivere su questo sfruttamento del delitto e delle vittime, oltraggiate anche dopo la morte, ma vogliamo iniziare il 2011 in altro modo, dedicando il nostro pensiero ai bambini e alle donne che vivono nella quotidianità di una vita, a volte precaria e difficile, con la forza ed il coraggio di chi non accetta un destino che li vuole eternamente subalterni, vuoi per età vuoi per sesso.
Nulla intenerisce più del sorriso dei bambini, dei loro sguardi limpidi, delle vocine ancora incerte che iniziano il cammino della vita, accompagnati dalla guida di genitori che li ritengono il fine ultimo della loro vita e li amano come i padri e le madri sanno amare.
Nulla è più gioioso del riso di una donna, più dolce di una sua carezza che rasserena e conduce in un mondo in cui non c’è spazio per i cattivi sentimenti, ma solo per quell’amore che è eterno come eterno è l’ Universo.
Non esiste un mondo senza bambini e senza donne che possa conoscer e felicità, perché sono loro che ne possiedono le chiavi, loro che possono donarla e rendercene partecipi.
La speranza è, quindi, quella che sempre più uomini possano com prendere, senza costrizioni o lavaggi cerebrali, quello che in fondo sanno fin dalla nascita, quando si abbracciavano alla madre, che la gioia dei cuori, anche quelli più inariditi, ci proviene dalle nostre donne e dai nostri figli.
Non è la gioia dei sensi, perché non sono, le nostre donne, mero strumento di piacere, ma qualcosa di molto più significativo che riempie un’intera esistenza e mai tradisce.
La speranza è che si riscopra la verità, oggi occultata, che l’amo re nelle sue realtà, spirituali e non fisiche, lo proviamo solo quando riusciamo a farci amare dai figli e dalle donne.
In un mondo confuso e disorientato, come quello in cui oggi vivia mo, dove si pretende di rendere eguali tutti e tutte, formando una nuova specie umana di esseri che non sono del tutto maschi e non sono del tutto femmine, l’ostacolo insuperabile ad ogni osceno disegno sono proprio le donne, la cui femminilità non è imitabile né trasmutabile, così che esse rimangono la vita e non potranno mai esserne la negazione.
Il ciclo eterno della vita passa per la donna, il frutto del suo amore sono i figli che rappresentano la continuità della vita, non solo di una specie.
La tecnologia moderna riduce l’uomo ad un animale da riproduzione, ma senza il corpo di una donna la vita non può nascere.
E noi riteniamo che essa debba nascere dall’amore, non dalla tecnologia perché i figli abbiano una madre ed un padre e quest’ ultimo, a sua volta, abbia possibilità di farsi amare da loro e dalla sua compagna.
Sono considerazioni che potrebbero essere giudicati banali, e lo sarebbero state in altri tempi, ma oggi hanno il valore intrinseco della riscoperta di un mondo che, via via, sta scomparendo a favore dalla moltiplicazione di novelli Frankstein creati in laboratorio o nelle sale chirurgiche.
La speranza è che si levi, pian piano, uno inno alla vita la cui verità non è contorta, è semplice ed immutabile, non soggetta a modifiche ed esperimenti.
La presunzione di certe élites è destinata ad infrangersi insieme ai mondo da incubo che stanno, un poco per volta, cercando di costruire nel momento in cui si farà strada la consapevolezza che la via della vita è una sola, da percorrere in due: una donna ed un uomo insieme, e con essi i loro figli.
Ma l’amore verso una donna non basta. Deve essere accompagnato dal rispetto e dalla stima che sono il corollario stesso dell’amore, e da questo non possono prescindere.
L’ augurio è, infine, quello che gli uomini possano ritrovare sé stessi e l’onore oggi perduto, quello che imponeva di difendere la donna e i bambini, anche da sé stessi, dalla propria ira, dai propri sentimenti quando feriti, perché chi infierisce su una donna o sui bambini non ha onore né dignità, va emarginato con giusto disprezzo.
Non sarà facile, in un mondo in cui le donne vengono esposte sulla linea del fuoco nei fronti di guerra in nome di una inesistente parità, con buona pace dell’onore militare, ma bisogna iniziare quel cammino a ritroso che, passo dopo passo, ci riconduca al momento in cui è iniziato quel processo che, in nome del progresso dell’umanità, ci sta conducendo all’autodistruzione.
Solo una donna, Carlotta Corday, ebbe il coraggio di levare il pugnale sul giacobino Marat.
Sarà ancora una donna, in modo meno cruento, a dare il segnale della riscossa?
Ce lo auguriamo.

Vincenzo

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La fotografia di Yara ci riporta l’immagine di una bambina dal sorriso sbarazzino, dinanzi al quale avventiamo il senso dell’impotenza totale.

L’appello dei genitori di Yara, inutilmente rivolto al senso di pietà di quanti hanno strappato la figlia, al loro affetto, accresce il senso di sgomento e di furore nei confronti di quanti da mezzo secolo a questa parte hanno callidamente preferito schierarsi dalla parte dei carnefici contro, le vittime.

Cosa, dire ai disperati genitori di Yara? Parole di inutile conforto, preghiere che non hanno senso, fiaccolate che dimostrano la solidarietà dei paesani, ipocriti servizi televisivi che fanno da palcoscenico a giornalisti cinici ed esperti in cerca di pubblicità per parlare di un dolore che non provano e di un senso di pietà che non hanno.

Da un lato il sorriso di Yara, dall’altro il servizio su Vallanzasca, l’appello dei genitori di Yara e la reiterazione de “Il Padrino”, il dolore e i detenuti che mangiano a Natale insieme ai frati e ai preti della Comunità di Sant’ Egidio.

Il bene e il male posti sullo stesso piano, vittime e carnefici da compatire entrambi, fra le notizie sul millesimo amore della velina di turno il matrimonio del principe di Galles.

Se mai il cuore ci avesse suggerito di indirizzare uno scritto ai genitori di Yara, non troviamo le parole per dire quello che si prova dinanzi ad un dramma che, quando concluso, se concluso, passerà come sono passati tutti gli altri ai quali abbiamo assistito in tanti anni.

Non si perdere la speranza che Yara possa tornare, ma questo non attenua la rabbia per aver permesso che qualcuno l’abbia portata via, l’abbia strappata al suo mondo, ai suoi affetti, le abbia fatto conoscere, nel modo peggiore, il peggio del mondo e degli uomini.

Dinanzi al dolore composto e dignitoso dei genitori di Yara, tale da imporre rispetto perfino ai giornalisti italiani che hanno, per una volta, accantonato la loro leggendaria volgarità e scompostezza, si può solo partecipare nel silenzio solidale di chi chiede, con forza, alla gente di scuotersi, di liberarsi di tutto il ciarpame che ne ha oscurata la coscienza, per dire che Yara sia la fine e 1’inizio.

La fine del tempo del pietismo d’accatto verso i criminali, l’inizio della ricostruzione di un mondo più giusto, dove la difesa e la protezione degli innocenti siano considerate prioritarie rispetto ai diritti di chi, per sua scelta e per sua infamia, si è posto al di fuori del genere umano.

Perché la ferocia e la crudeltà non hanno sempre e soltanto spiegazioni psicoanalitiche, non scaturiscono da ricordi d’infanzia maltrattata, dalla nonna ubriacona, dalla madre infedele, dal padre zotico e manesco, ma hanno le loro radici e la loro spiegazione nella

natura umana, dove luce e tenebre convivono e si combattono, dove
troppo spesso per la viltà dei tempi le seconde finiscono per prevalere sulla prima.

E mentre si preparano i cenoni e i balli e le feste di Capodanno, il sorriso di Yara suscita angoscia per la sua sorte e c’induce a chiederci quanti altri lupi, in veste di uomini, dobbiamo far vivere e proteggere perché possano fare del male a mille e mille altre Yara?

Se mai avessimo potuto scrivere ai genitori parole di speranza e di conforto e, insieme, dare loro certezza di giustizia, lo avremmo fatto.

La speranza sul ritorno di Yara rimane, la certezza della giustizia non c’è, anzi è cancellata dai codici e degli animi.

E allora è più giusto il silenzio nella trepida attesa, facendo nostro il tormento dei genitori, di quanti hanno ancora un cuore, un animo ed una coscienza.

Vincenzo

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